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Illegittimità dell’obbligo di giustificazione per uscire di casa

mar 26, 2021

Tribunale di Reggio Emilia, Sezione GIP-GUP, sentenza n. 54 del 27 gennaio 2021


IL CASO 

Due persone, in data 13 marzo 2020, vengono controllate dai Carabinieri, in “zona rossa”, al di fuori della loro abitazione, e compilano un’autocertificazione in cui attestano fatti non veritieri per sfuggire alla sanzione allora prevista dal DPCM dell’8 marzo 2020, che si limitava a richiamare sul punto l'abrogato art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 (il quale, a sua volta, puniva il mancato rispetto delle misure di contenimento ai sensi dell’art. 650 del codice penale).

I due vengono indagati per l’ipotesi di reato di cui all’art. 483 c.p. (“Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a due anni”) ma il GIP di Reggio Emilia, pronunciandosi sulla corrispondente richiesta di decreto penale, proscioglie i due imputati “perché il fatto non costituisce reato”.

In particolare, il Giudice penale di primo grado:

- parte dall’illegittimità del DPCM dell’8 marzo 2020 per contrasto con l’art. 13 della Costituzione, in quanto prescrivente l’obbligo della permanenza domiciliare nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, senza il rispetto della doppia riserva, di legge e di giurisdizione, prescritta dalla Carta fondamentale (riserva che per le restrizioni della libertà personale implica necessariamente un provvedimento individuale autorizzato dalla legge e dal giudice);

- fa discendere da tale illegittimità la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo per violazione di legge;

- fa infine conseguire alla disapplicazione del DPCM l’assenza dell’antigiuridicità in concreto della condotta di falso, o comunque l’integrazione di un falso inutile, in quanto la falsità avrebbe inciso su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere.


L’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE DELLO SPOSTAMENTO 

Il caso esaminato dal GIP di Reggio Emilia, al di là della fattispecie concreta – che si è realizzata in una fase di contrasto della pandemia giuridicamente ancora “acerba” -, acquista rilevanza generale in ordine alla possibilità o meno di imporre ai cittadini obblighi di “giustificazione”, anche solo per uscire di casa.

L’autocertificazione tramite cui “giustificarsi” è stata prevista e adottata dal Ministero dell’Interno, a partire da una direttiva alle Autorità coinvolte emessa in data 8 marzo 2020 dal Ministro competente, per consentire agli interessati di comprovare, tramite una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, la sussistenza di uno dei motivi in base ai quali si può uscire di casa nelle “zone rosse” (fatta salva la possibilità illimitata di rientro nella propria residenza, abitazione o domicilio, che, però, proprio perché “rientro”, non attiene alla fase di “uscita” dall’abitazione).

Il giudice di primo grado assimila il divieto di spostamento tipico che vige all’interno dei “territori in zona rossa” (“È vietato ogni spostamento (…) all'interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”), così come riprodotto anche dall’ultimo DPCM del 2 marzo 2021, a un obbligo di permanenza domiciliare, e sottopone, conseguentemente, ogni norma – avente fonte di legge o di atto amministrativo – allo scrutinio di legittimità previsto dall’art. 13 della Costituzione. 

Invero, il suddetto art. 13 stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su «…atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; il primo corollario di tale principio costituzionale, dunque, è che un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare e non già di un atto normativo avente forza di legge; secondo corollario del medesimo principio costituzionale è, peraltro, quello secondo cui neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) può prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini.

A parere del Giudice di Reggio Emilia, la disposizione che stabilisce un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configurando un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare, costituisce una misura restrittiva della libertà personale, e può essere prevista, nel nostro ordinamento giuridico, in conformità con il precetto costituzionale sopra evidenziato, soltanto quale sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio, ovvero, quale misura di custodia cautelare disposta dal Giudice stesso, nella ricorrenza di rigidi presupposti di legge, all’esito di un procedimento disciplinato normativamente, e in ogni caso nel rispetto del diritto di difesa.

Ne consegue che non sussiste, secondo questo ragionamento, alcun obbligo per il cittadino di specificare alle forze dell’ordine che lo richiedano, nell’ambito di un controllo di routine o di necessità, quale sia il motivo di allontanamento dalla propria abitazione, trattandosi di obbligo di permanenza domiciliare non disposto in forza di una legge “dettagliata” e sotto il controllo motivato di un Giudice. 

 

L’ONERE DI AUTOCERTIFICAZIONE DELLO SPOSTAMENTO

Il ragionamento del Giudice di Reggio Emilia - in sé corretto, se si parte dal presupposto che il divieto di spostamento prescritto per le zone rosse sia riconducibile a una restrizione della libertà personale e non alle limitazioni della circolazione di cui all’art. 16 della Costituzione (per le quali basterebbe una legge autorizzativa) -, ha ricadute importanti sul cosiddetto e improprio “obbligo” di autocertificazione dei motivi “legittimi” che hanno costretto il cittadino ad evadere dalla sua permanenza domiciliare.

Cominciamo col dire che in nessuna norma “emergenziale” è stato previsto un obbligo, salvo che non lo si voglia dedurre, l’obbligo, dall’uso del termine “comprovate” (“comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”).

Nella sua direttiva dell’8 marzo, peraltro, il Ministro dell’Interno afferma che “l'onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento incombe sull'interessato” e che “tale onere potrà essere assolto producendo un'autodichiarazione ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445”.

Si tratta dunque di un onere e non di un obbligo. Ma siamo proprio sicuri che l’onere probatorio gravi sul cittadino e non sulle forze dell’ordine, e che l’autodichiarazione da cui discende un obbligo di “verità” penalmente sanzionato sia lo strumento corretto per assolvere a tale onere?

Innanzitutto, il ”comprovate” del d.P.C.M. pare riferirsi alle sole esigenze lavorative; inoltre, provare un fatto non implica la necessità di una dichiarazione “obbligatoria”, ma è un onere giuridico che può essere assolto in vari modi (documentalmente, per presunzioni, tramite testimonianza, etc.), entro un limite temporale non predeterminato per legge, e fatto salvo, in ultima analisi, un accertamento di tipo giudiziale sull’effettivo assolvimento dell’onere probatorio stesso.

Trattandosi di dichiarazione resa ai sensi degli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, occorre a questo punto verificare se la sua utilizzabilità per giustificare gli spostamenti si possa trarre implicitamente dal citato disposto normativo.

L’art. 46 prevede che “sono comprovati con dichiarazioni, anche  contestuali all'istanza, sottoscritte dall'interessato e prodotte in sostituzione delle normali certificazioni” alcuni stati, qualità personali e fatti tassativamente descritti nella stessa norma (ad esempio, residenza, stato familiare e qualifica professionale).

Tra questi stati, qualità personali e fatti non rientra – e sarebbe d’altra parte quanto mai anomalo il contrario, in un ordinamento democratico – la circostanza rappresentativa di un valido motivo per uscire di casa.

Peraltro, l’art. 47, intitolato “Dichiarazioni sostitutive dell'atto di notorietà”, estende genericamente la possibilità di autocertificazione anche a “stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato”.

E, in ogni caso, “nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.

Ma cos’è l’atto di notorietà?

Nel senso tradizionale della formula giuridica, l’atto di notorietà, o atto notorio, o ancora attestazione giurata, consiste nella dichiarazione sotto giuramento resa da due testimoni maggiorenni (muniti di documento valido) dinanzi ad un pubblico ufficiale (che può essere sia un notaio che un cancelliere), per certificare stati, qualità personali o fatti (morte, nascita, sussistenza o meno di testamento, ecc...), di cui sono a conoscenza e che sono pubblicamente noti.

E’ ad esempio un atto di notorietà quello previsto dall’art. 100, comma 2 c.c., in relazione alla dispensa dalle pubblicazioni di matrimonio (“gli sposi davanti al cancelliere dichiarano sotto la propria responsabilità che nessuno degli impedimenti stabiliti dagli articoli 85, 86, 87, 88 e 89 si oppone al matrimonio”).

L’art. 30 della legge sul procedimento amministrativo, intitolato “atti di notorietà”, stabilisce che “in tutti i casi in cui le leggi e i regolamenti prevedono atti di notorietà o attestazioni asseverate da testimoni altrimenti denominate, il numero dei testimoni è ridotto a due” e che “è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni e alle imprese esercenti servizi di pubblica necessità e di pubblica utilità di esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà prevista”, quando si tratti di provare qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato.

Da questa norma, in combinato disposto con l’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, si ricavano due informazioni fondamentali, quanto al regime giuridico e definitorio degli atti di notorietà.

La prima, è che l’atto di notorietà è indefettibilmente un’attestazione asseverata da testimoni; la seconda, è che tale atto può consistere sia nella prova di qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato e che lo riguardino, sia nella prova di stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui l’interessato abbia diretta conoscenza, ma che mai le pubbliche amministrazioni possono esigere atti di notorietà in luogo della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà, quando ricorra il primo caso (qualità personali, stati o fatti che siano a diretta conoscenza dell'interessato e che lo riguardino).

Dal punto di vista funzionale, peraltro, l’atto notorio, in quanto atto pubblico, costituisce prova legale della sua provenienza dal dichiarante e di quanto fatto o dichiarato davanti al funzionario pubblico o al pubblico ufficiale (come il notaio) che lo riceve, ma non vale, al contrario, come prova legale dei contenuti delle dichiarazioni; in altre parole, non fa prova legale dell’esistenza di fatti giuridici, ma solo della loro notorietà.

Tanto premesso sul concetto di atto notorio, l’autodichiarazione adottata dal Ministero dell’Interno non rientra nei parametri legali né della dichiarazione sostitutiva di certificazioni, né della dichiarazione sostitutiva di atto notorio.

Non rientra nei casi previsti dall’art. 46 del d.P.R. n. 445 del 2000, perché il fatto da comprovare non è nessuno di quelli stabiliti tassativamente dal medesimo articolo; non rientra nei casi previsti dall’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, perché il fatto da comprovare non è uno di quei fatti che sono dimostrabili tramite atto di notorietà, mancando il requisito della “pubblicità” della notizia.

Si tratta in realtà di fatti per loro natura privati (esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute). 

Né si può dire che sia applicabile al caso di specie il comma 3 dell’art. 47, che pare alludere ad un rapporto (contrattuale) già in atto con la pubblica amministrazione o con un concessionario di pubblici servizi (“nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell'articolo 46 sono comprovati dall'interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà).

In ogni caso, anche a volerla forzatamente fare rientrare nei parametri legali di cui agli artt. 46 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000 (con evidente intento di sanzionare penalmente le eventuali dichiarazioni false), l’autocertificazione in discorso resta al più una facoltà del privato (una forma di allegazione), e non certo un obbligo, potendosi provare uno dei fatti contemplati dal DPCM (esigenze lavorative, situazioni di necessità o motivi di salute) in tutti i modi consentiti dall’ordinamento giuridico.


LEGITTIMITA’ DELLA SANZIONE AMMINISTRATIVA 

Premesso dunque che non sussiste alcun obbligo né alcun onere in senso tecnico di autodichiarazione potenzialmente autoincriminante; assodato inoltre che l’autocertificazione adottata dal Ministero dell’Interno non può essere considerata alla stregua di un “biglietto” di viaggio, da avere necessariamente in tasca per potere uscire di casa, né che ne può essere imposta la sottoscrizione, occorre a questo punto verificare se e come l’agente di pubblica sicurezza possa elevare legittimamente la sanzione prevista dall’art. 4, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 35 del 2020.

La citata norma così recita, per quanto di stretto interesse: “Salvo che il fatto costituisca reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui all'articolo 1, comma 2, individuate e applicate con i provvedimenti adottati ai sensi dell'articolo 2, commi 1 e 2, ovvero dell'articolo 3, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 400 a euro 1.000”.

I provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 2, commi 1 e 2 sono i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri (o le ordinanze del Ministero della Salute) che adottano una o più misure tra quelle previste dal legislatore per contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla pandemia; i provvedimenti adottati ai sensi dell’articolo 3 sono le ordinanze regionali ulteriormente restrittive.

Dal momento che la legge lascia uno spazio di discrezionalità al potere esecutivo (o alle Regioni) nel decidere quale misura adottare in concreto (“possono essere adottate (…) una o più misure”, “secondo principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso”: art. 1, commi 1 e 2 del d.l. n. 19 del 2020), oggetto di eventuale contestazione “primaria” da parte del cittadino sanzionato resta l’atto amministrativo (DPCM) che ha disposto, su autorizzazione legislativa, la misura astrattamente non rispettata.

Se in concreto l’agente di pubblica sicurezza individua una violazione del DPCM – come avvenuto nel caso esaminato dal GIP di Reggio Emilia –, scatta oggi la procedura prevista dalle disposizioni delle sezioni I e II del capo I della legge 24 novembre 1981, n. 689, da applicarsi nei limiti di “compatibilità”, con irrogazione della sanzione affidata al Prefetto.

Soffermiamoci un attimo sulla trasgressione della misura in base alla quale all’interno dei “territori in zona rossa” “è vietato ogni spostamento, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute”.

La procedura, emendata dal percorso di autocertificazione suggerito dal Ministro – modalità la cui inottemperanza non dà comunque luogo ad alcuna autonoma sanzione -, dovrebbe consistere nell’accertamento puntuale, da parte dell’agente di pubblica sicurezza, di uno “spostamento” da una parte all’altra di un determinato territorio, non giustificato da specifiche esigenze.

Il primo problema di una fattispecie di illecito così formulata è: quando inizia e quando finisce lo spostamento? Chi ha formulato la norma ha utilizzato il termine “spostamento” probabilmente per agganciare il divieto a quello di cui all’art. 16 della Costituzione (limitazione alla circolazione sul territorio nazionale), che come visto, a differenza delle restrizioni della libertà personale, non prevede il controllo del giudice sulla misura applicata.

Un soggetto che esce di casa per fare una lunga passeggiata e poi tornare a casa da quale momento in poi configura l’ipotesi “del rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza” (consentito) e non più dello spostamento non consentito?

Lo spostamento implica necessariamente il recarsi da un punto A fino ad un punto B o è anche solo il mero uscire di casa a prendere aria? Se inteso nel secondo senso, è difficile negare che si tratti di un “divieto di uscire di casa” e dunque di un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare.

Se inteso nel primo senso, la genericità del precetto impedisce l’applicazione della sanzione nei confronti di chi si limita a circolare nel proprio Comune, e può acquistare rilievo soltanto se lo spostamento si completi dal punto A al punto B, non sia giustificato da nessuna delle esigenze stabilite dalla legge e metta a rischio l’interesse protetto dalla norma, che è e deve restare quello di “contenere e contrastare i rischi sanitari derivanti dalla diffusione del virus (…)” (art. 1, comma 1 del d.l. n. 19 del 2020).

Quid iuris dunque?

La dichiarazione del privato non costituisce un’autocertificazione ma vale allegazione di un fatto, che esclude la sussistenza dell’illecito amministrativo.

L’illecito non può essere configurato come un obbligo di permanenza domiciliare, pena l’illegittimità “derivata” della sanzione applicativa di un atto amministrativo (DPCM) a sua volta illegittimo per violazione di legge costituzionale (art. 13 della Costituzione).

Qualora correttamente interpretato – ovvero come divieto di circolazione e accesso in luoghi diversi dalla propria abitazione o comunque diversi da altri luoghi in cui è consentito l’accesso (supermercati, negozi di abbigliamento o di generi di prima necessità) - l’illecito amministrativo si configura soltanto se l’organo accertatore riesce a dimostrare che lo spostamento costituisce una condotta almeno colposa che ha esposto il soggetto e/o altri soggetti a un contatto rischioso, portando il “trasgressore” da un punto A consentito a un punto B non consentito.

L’accertamento, se possibile, deve essere effettuato nell’immediatezza, in contraddittorio con l’interessato; in ogni caso, entro il termine di trenta giorni dalla data della contestazione o della notificazione della violazione, l’incolpato può far pervenire al Prefetto scritti difensivi e documenti, e chiedere di essere ascoltato.

Se il Prefetto ritiene fondato l’accertamento, emette ordinanza-ingiunzione di pagamento, contro cui può essere proposta opposizione dinanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, ai sensi dell’articolo 6 del d.lgs. n. 150 del 2011.

In caso di opposizione, il Giudice ha due possibilità, in teoria.

Se la contestazione riguarda semplicemente l’essere usciti di casa senza una giustificazione, dovrebbe limitarsi a disapplicare il d.P.C.M. impositivo dell’obbligo, se ritenuto violativo dell’art. 13 della Costituzione, o comunque accogliere l’opposizione per infondatezza dell’accertamento, in quanto illegittimo rispetto alla corretta interpretazione della misura violata.

Qualora invece la contestazione riguarda uno spostamento in teoria vietato, ma l’opponente ha allegato una giustificazione, senza che l’amministrazione abbia provato l’insussistenza di tale giustificazione, il giudice dovrebbe senz’altro accogliere l’opposizione, in quanto “non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente” (art. 6, comma 11 del d.lgs. n. 150 del 2011, applicabile al caso di specie in virtù del richiamo alla L. n. 689 del 1981 contenuto nel d.l. n. 19 del 2020, art. 3, comma 4). 

Resta in ogni caso il problema di fondo.

Il divieto assoluto di spostamento dalla propria abitazione, salvo limitate eccezioni, costituisce restrizione della libertà personale o limitazione alla circolazione?

Secondo la Corte costituzionale, la restrizione della libertà personale si risolve in una sorta di degradazione giuridica, e, per aversi degradazione giuridica, occorre che il provvedimento “restrittivo” provochi “una menomazione o mortificazione della dignità o del prestigio della persona, tale da potere essere equiparata a quell’assoggettamento all’altrui potere, in cui si concreta la violazione del principio dell’habeas corpus”.

All’interprete la scelta, dunque.



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