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Emergenza epidemiologica: il potere organizzativo e coercitivo della Pubblica Amministrazione

relazione tratta dal seminario "Vaccinazione e Pandemia" • feb 18, 2021

L'emergenza epidemiologica ha operato una tensione sulle strutture e sulle competenze pubbliche che ha messo a dura prova il nostro ordinamento giuridico.

Stato, Regioni e Comuni avrebbero dovuto necessariamente agire in sintonia per rispondere alle esigenze del cittadino sul territorio, perché le strutture della pubblica amministrazione più vicine e responsabili nell'immediato, nell'urgenza, rispetto a quella che possiamo definire una "guerra invisibile e di quartiere", risultano il frutto di una stratificazione di poteri e competenze.

La parte esecutiva, amministrativa della macchina pubblica si è dovuta necessariamente confrontare con due esigenze fondamentali, connesse con altrettanti obiettivi decisivi: 

a) il contenimento della diffusione del virus;

b) la protezione attiva della popolazione dalla malattia.

Il contenimento afferisce all'attività di tracciamento e isolamento dei focolai, e da noi è sostanzialmente fallito, sia nella prima che nella seconda fase, seppure per motivi diversi.

Nella prima fase c’è stata impreparazione, confusione decisionale e scarsità di mezzi (in particolare, dei dispositivi di protezione e di terapie intensive), nella seconda è mancata la capacità di preparare la collettività, tramite interventi strutturali mirati, alla fase di convivenza con il virus.

La protezione dalla malattia è più strettamente collegata all'efficienza delle strutture sanitarie nell'operare diagnosi, cura e prevenzione della malattia stessa.

Ma le strutture sanitarie lavorano con gli strumenti di cura a loro affidati dalla scienza medica e nell'organizzazione complessiva che si dà la macchina pubblica.

L'organizzazione dell'amministrazione/i competente/i, ivi compreso l'eventuale potere coercitivo ad essa connesso, si basa su regole di principio e di dettaglio che scandiscono tempi e modi di funzionamento della macchina pubblica.

Ma quali sono gli strumenti normativi - cioè le fonti da cui derivano queste regole volte a disciplinare l'emergenza epidemiologica - nel nostro ordinamento giuridico?

Dobbiamo ovviamente partire dalle fonti che si pongono al più alto livello gerarchico, e cioè le norme costituzionali.

Alla base di ogni tipo di intervento del potere amministrativo c’è innanzitutto il principio di legalità, previsto, seppure con formula involuta, dall’art. 97, comma 2 della Costituzione (“I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione”).

Ma la norma fondamentale che pare regolare il riparto di competenze e fondare il potere di organizzazione in caso di pandemia è l’art. 117, comma 2, lett. q) della Costituzione, secondo cui lo Stato ha legislazione esclusiva anche nella materia delle “dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale”.

La profilassi internazionale, nello specifico, è una materia che di per sé attrae, in astratto, la competenza sull’intera disciplina emergenziale, riservandola allo Stato centrale, come ha di recente affermato anche la Corte costituzionale nell’ordinanza n. 4 del 2021 con cui ha sospeso la legge della Regione Valle d’Aosta n. 11 del 2020, “rea” di avere adottato delle disposizioni più “aperturiste” rispetto alla normativa nazionale.

D’altra parte, anche scendendo al livello della competenza legislativa concorrente (quale è quella in materia di tutela della salute), dove pure la potestà regolamentare spetterebbe alle Regioni, è innegabile che lo Stato, quando esercita una competenza, può realizzare a cascata il completamento della disciplina anche con atti amministrativi necessari ad assicurare l’esecuzione sul territorio nazionale, in condizioni di omogeneità, della disciplina stessa.

Secondo la Corte costituzionale, ad esempio, nell’ambito della vaccinazione di massa, “ragioni logiche, prima che giuridiche, rendono necessario un intervento del legislatore statale e le Regioni sono vincolate a rispettare ogni previsione contenuta nella normativa statale, incluse quelle che, sebbene a contenuto specifico e dettagliato, per la finalità perseguita si pongono in rapporto di coessenzialità e necessaria integrazione con i principi di settore” (così la sentenza n. 5 del 2018 sul decreto legge n. 73 del 2017).

Quanto infine all’esercizio delle funzioni amministrative, è lo stesso principio di sussidiarietà verticale stabilito dall’art. 118 della Costituzione a depotenziare la generale competenza “locale”, più prossima al cittadino, quando sia necessario e “adeguato” assicurarne l’esercizio unitario.

Passando alle fonti sub-costituzionali, occorre innanzitutto distinguere tra legislazione ordinaria studiata per fronteggiare situazioni straordinarie di necessità e urgenza e legislazione emergenziale.

Tutti e due questi tipi di legislazione presuppongono che, a fronte di circostanze imprevedibili e anomale, le risposte ordinamentali tipiche o già tipizzate possono non essere adeguate, e dunque occorre lasciare un maggiore spazio di discrezionalità amministrativa e tecnica al potere esecutivo.

Quanto alla normativa ordinaria, l’art. 32 della L. n. 833 del 1978 stabilisce che il Ministro della Salute può emettere ordinanze di carattere contingibile e urgente, in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria, con efficacia estesa all'intero territorio nazionale o a parte di esso comprendente più Regioni. 

Nelle medesime materie (igiene e sanità pubblica) sono emesse dal Presidente della Giunta regionale o dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla Regione o a parte del suo territorio comprendente più Comuni e al territorio comunale. 

Sono in ogni caso fatti salvi i poteri degli organi dello Stato (quali ad esempio le Prefetture) preposti alla tutela dell'ordine pubblico.

Quanto alla normativa “emergenziale”, la risposta del nostro ordinamento giuridico dinanzi a un evento straordinario quale quello pandemico è stata scandita secondo 'fasi' diverse.

In un primissimo momento, l'epidemia è stata affrontata quale emergenza di protezione civile, secondo la strumentazione giuridica offerta dal Codice di protezione civile (decreto legislativo n. 1 del 2018).

Quest'ultimo definisce una concatenazione di atti giuridici - deliberazione dello stato di emergenza da parte del Consiglio dei ministri, per un lasso temporale determinato (non superiore a dodici mesi, prorogabile per non più di ulteriori dodici mesi); ordinanze del Presidente del Consiglio; ordinanze del Capo del Dipartimento della protezione civile - commisurata a fenomeni (come terremoti e disastri naturali) tali da poter sì recare limitazioni di diritti individuali (come il divieto di ingresso e dimora in zone o edifici pericolanti), ma non così estese quali le restrizioni imposte dall'emergenza da Covid-19.

Al contempo, vi è stata l'emissione di ordinanze di carattere contingibile e urgente da parte del Ministero della salute ai sensi dell'articolo 32 della legge n. 833 del 1978. A causa della pervasività e della persistenza dell'epidemia, e dell'incidenza sui diritti di libertà che essa importa per preservare la salute individuale e collettiva, si è aggiunto poi il ricorso allo strumento legislativo straordinario e ai famigerati DPCM.

Si è così avviata una complessa successione di decreti-legge e decreti tout court.

Se alcuni decreti-legge risultano prevalentemente rivolti all'adozione di puntuali disposizioni per fronteggiare l'emergenza sanitaria e socio-economica, altri sono stati volti altresì, o soprattutto, a definire una cornice di regolamentazione giuridica per l'adozione delle misure.

Tali sono da considerare il decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020 e, in maggior misura, il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020.

Quest’ultimo decreto ha segnato un cambio di passo, rispetto ad un sistema 'duale' nella gestione delle emergenze (sistema di protezione civile, da un lato, e ordinanze ex legge n. 833 del 1978, dall'altro) che il decreto-legge n. 6 ancor manteneva, dal momento che esso elencava misure (tendenzialmente quelle già contemplate nell'ordinanza del Ministero della salute del 21 febbraio 2021) a mero titolo esemplificativo, demandando alle autorità competenti l’adozione di ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica, e lasciando ampia discrezionalità ai d.P.C.M.

Il decreto-legge n. 19 ha proceduto di contro ad una tipizzazione delle misure per fronteggiare l'emergenza, maggiormente definendo inoltre il rapporto tra Stato e Regioni, con un coordinamento in capo al Presidente del Consiglio.

In questo impianto, il ruolo delle Regioni risultava circoscritto alla introduzione di misure ulteriormente restrittive, per far fronte all'emergenza epidemiologica innanzi a situazioni territoriali tali da implicare un aggravamento del rischio sanitario. Alle misure delle Regioni era preclusa ogni incisione sulle attività produttive (cfr. articolo 3, comma 1 del decreto-legge n. 19 del 2020). Ed il perimetro dell’intervento regionale in materia risultava circoscritto dalla avocazione in sussidiarietà allo Stato di funzioni amministrative, nonché legislative, per fronteggiare un'emergenza sanitaria involgente profilassi internazionale (cfr. la sentenza n. 841 del 2020 resa dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sul ricorso proposto dalla Presidenza del Consiglio avverso l'ordinanza 29 aprile 2020, n. 37 del Presidente di quella regione).

Rispetto a tale organizzazione ordinamentale della risposta all'epidemia, ha segnato un'evoluzione il decreto-legge n. 33 del 16 maggio 2020.

Esso ha da un lato stabilito un progressivo allentamento di divieti e vincoli calibrati sulla fase più acuta dell'emergenza, dall'altro ha ammesso un'incidenza regolatoria regionale sulle "attività economiche, produttive e sociali" (come recita il suo articolo 1, comma 14). La risposta all'emergenza epidemiologica si è aperta così ad una maggiore articolazione, nel concorso tra Stato e Regioni, circa l'adozione delle misure per fronteggiare l'emergenza epidemiologica.

Il decreto-legge n. 33 ha inteso avviare quella che nel lessico corrente era definita come la 'fase due' della vicenda e gestione dell'epidemia.

A seguire, il decreto-legge 30 luglio 2020, n. 83 ha inciso quasi esclusivamente sulla modulazione temporale dell'efficacia delle misure fin lì adottate.

In seguito è giunto il decreto-legge n. 125 del 7 ottobre 2020, in una congiuntura in cui l'andamento epidemiologico mostrava i segni di una significativa ripresa della fase critica.

Il decreto-legge n. 125 ha introdotto la previsione di un 'obbligo di mascherina', nonché una declinazione restrittiva (o ampliativa, ma solo a determinate condizioni, indicate con decreto del Ministero della salute) delle misure derogatorie che le Regioni possano introdurre onde garantire lo svolgimento in sicurezza delle attività economiche, produttive e sociali.

E’ nato così il sistema delle “zone” o “colori” che dir si voglia.

Successivamente, è intervenuta l'adozione di misure intese come contenitive di momenti relazionali e possibili occasioni di trasmissione del contagio, nel ricorrere delle festività natalizie e di fine anno, fino al 6 gennaio (decreti-legge n. 158 e n. 172 del 2020, il secondo dei quali ha altresì disposto in ordine a contributi a fondo perduto da destinare all'attività dei servizi di ristorazione).

A seguire, il decreto-legge n. 1 del 2021 ha prorogato misure restrittive della circolazione per il periodo 7-15 gennaio 2021, nonché relative alla classificazione degli scenari di rischio.

Inoltre, ha posto previsioni circa la progressiva ripresa dell'attività scolastica in presenza, la manifestazione del consenso al trattamento sanitario del vaccino anti Covid-19 per i soggetti incapaci ricoverati presso strutture sanitarie assistite, ed ancora la concessione di un contributo a fondo perduto ai soggetti titolari di partita IVA che svolgano attività prevalente nei settori dei servizi di ristorazione.

Infine, è intervenuto il decreto-legge n. 2 del 14 gennaio 2021, che ha disposto la proroga dei termini di efficacia delle restrizioni già vigenti e ha introdotto, all’art. 3, disposizioni sull'istituzione di una piattaforma informativa nazionale, predisposta e gestita da parte del Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica COVID-19. 

Tale piattaforma è destinata, in primo luogo, ad agevolare le attività di distribuzione sul territorio nazionale delle dosi vaccinali, dei dispositivi e degli altri materiali di supporto alla somministrazione, e il relativo tracciamento; in secondo luogo, svolge, in regime di sussidiarietà, qualora il sistema informativo vaccinale di una regione o di una provincia autonoma non risulti adeguato e su istanza del medesimo ente, le operazioni di prenotazione delle vaccinazioni, di registrazione delle somministrazioni dei vaccini e di certificazione delle stesse, nonché le operazioni di trasmissione dei dati al Ministero della salute.

Si tratta di una disposizione complementare alla disciplina della somministrazione dei vaccini, che si è nel frattempo “irrobustita” dopo avere trovato, inizialmente, risposte molto deboli da parte dell’ordinamento, probabilmente anche in conseguenza delle incertezze relative ai tempi di approvazione e messa in commercio dei primi vaccini oggetto di trattativa di acquisto da parte dell’Unione europea. 

In particolare, la disciplina dei sistemi informativi funzionali all'implementazione del piano strategico dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2 (adottato con D.M. del 2 gennaio 2021, sulla base di quanto disposto dalla legge di bilancio per il 2021) è oggi collegata ad uno schema di indirizzo finalmente operativo e che è stato aggiornato recentemente dalla nota con cui il Ministero della Salute, in data 8 febbraio 2021, ha stabilito le “priorità” per la seconda fase.

L’obiettivo della campagna di vaccinazione di massa è quello del raggiungimento dell’immunità di gregge.

Gli strumenti per il raggiungimento di tale obiettivo sono due, l’efficacia dei singoli vaccini e la velocità della campagna vaccinale.

Quanto al primo (efficacia della copertura vaccinale), esso non dipende dalle strutture pubbliche, ma dal livello di conoscenze scientifiche, anche in relazione alle possibili mutazioni del virus, che possono in prospettiva rendere inefficace o meno efficace il vaccino.

Quanto al secondo (velocità della campagna vaccinale), si tratta di una variabile che dipende invece dalla capacità di acquisto e disponibilità dei vaccini, dall’efficienza delle strutture pubbliche che li devono somministrare e dalla scelte politico-amministrative che delineano le linee di indirizzo e di azione.

Sotto il primo profilo (capacità di acquisto e disponibilità dei vaccini), secondo la Commissione europea Stati e Regioni membri non possono procedere con acquisti che vadano a ridurre gli stock già promessi dai produttori di vaccini tramite “accordi di acquisto preliminare”.

Nell’ambito dell’Unione è stato statuito, infatti, che la Commissione contratta unitariamente (cioè per tutti), con relativa impossibilità di contrattazione parallela da parte dei singoli Paesi, fatto salvo l’esercizio del diritto di “opt out” (una sorta di rinuncia all’accordo, con riespansione del potere statale “solitario” di contrattazione).

Sembra dunque paralizzato, al momento – con riferimento a questa specifica problematica – l’esercizio del potere-dovere che pure l’art. 122 del d.l. n. 18 del 2020, convertito con L. n. 27 del 2020, ha conferito al Commissario all’Emergenza, ovvero di adottare ogni misura idonea a fronteggiare la pandemia, ivi compresa l’individuazione di risorse umane e, per quel che più interessa in questo momento storico, “l’acquisizione di farmaci”.

Quanto al secondo profilo (efficienza delle strutture pubbliche nella somministrazione dei vaccini), l’art. 1 della L. n. 178 del 2020, entrata in vigore il primo gennaio 2021, dal comma 457 in poi, ha stabilito che il predetto Commissario individui le strutture in cui effettuare le somministrazioni di vaccini e le agenzie del lavoro a cui affidare il reperimento di ulteriore personale sanitario, oltre a quello dalla legge stessa cooptato in via eccezionale.

Il piano nazionale è invece attuato dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano “adottando le misure e le azioni previste, nei tempi stabiliti dal medesimo piano”, con possibilità di intervento sostitutivo del Commissario straordinario, in caso di inerzia.

Ma resta poco chiaro il rapporto tra decisioni/strutture nazionali e decisioni/strutture periferiche regionali, specie in relazione alle effettive modalità di sviluppo, attuazione e articolazione sul territorio del piano vaccinale, e all’individuazione concreta degli appartenenti alle singole categorie prioritarie a cui somministrare di volta per volta il vaccino.

In linea teorica, e sul piano organizzativo, a livello nazionale sono definite le procedure, gli standard operativi e la disposizione degli spazi per l’accettazione e la somministrazione, mentre a livello territoriale sono decisi la localizzazione fisica dei siti, il coordinamento operativo degli addetti e il controllo sull’esecuzione delle attività.

Sotto il profilo della catena di comando, a livello regionale sono identificati referenti che rispondono direttamente alla struttura di coordinamento nazionale e che si interfacciano con i Dipartimenti di Prevenzione, per garantire l’implementazione dei piani regionali di vaccinazione e il loro raccordo con il Piano nazionale di vaccinazione. 

Posto che il legislatore ha ritenuto di non rendere obbligatoria la vaccinazione di massa, né di attuare un sistema di incentivi per favorire la vaccinazione stessa (quali, a mero titolo di esempio, priorità o esclusività di accesso, in favore dei vaccinati, nei luoghi aperti al pubblico), e preso atto che i vaccini forniti sono allo stato insufficienti per garantire la velocità di vaccinazione necessaria a scongiurare il rischio connesso a mutazioni del virus che sfuggano alle difese immunitarie “rinforzate” dai singoli vaccini esistenti, vi è adesso la necessità di smaltire rapidamente le dosi fornite da AstraZeneca (che ha prodotto un vaccino pacificamente meno efficace degli altri due attualmente in commercio nell’UE).

Ma cosa accade sulla già ridotta velocità di somministrazione – come visto coessenziale per non rischiare un fallimento dell’operazione vaccinale di massa – se i soggetti a cui deve essere somministrato il medicinale di AstraZeneca rifiutino la vaccinazione per aspettare di essere immunizzati con un prodotto pacificamente più efficace? 

Il quesito si incrocia con l’individuazione delle categorie prioritarie individuate dall’aggiornamento del piano vaccinale effettuato l’8 febbraio 2021, con riferimento alla sesta fascia.

Solo tale fascia, tra cui rientrano i soggetti in buone condizioni tra i 18 e i 54 anni, allo stato (ma il criterio va sicuramente rivisto, alla luce dell’autorizzazione AIFA nel frattempo intervenuta, che ha spostato l’età massima consigliata per la somministrazione del vaccino di AstraZeneca dai 55 ai 65 anni), concorre alla vaccinazione insieme agli ultraottantenni, proprio perché la limitazione di età stabilita per l’iniezione del medicinale prodotto da AstraZeneca ha riservato di fatto la disponibilità immediata del suddetto medicinale alla fascia di popolazione considerata meno a rischio dal Ministero della Salute.

Ecco allora che diviene fondamentale stabilire, all'interno della sesta fascia individuata dall'aggiornamento del piano vaccinale, quali siano i soggetti appartenenti al “personale di altri servizi essenziali”, che devono essere immunizzati subito dopo il “personale scolastico e universitario docente e non docente, le forze armate e di polizia”, e i “setting a rischio quali penitenziari e luoghi di comunità”.

Si tratta di un insieme generico e non facilmente individuabile, se non attraverso il confronto con il personale specificamente individuato dalla definizione contenuta nel piano vaccinale e dal raffronto con altre definizioni normative simili rinvenibili nell'ordinamento giuridico. 

In particolare, sotto il secondo profilo, il primo riferimento normativo coerente è quello alla legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali.

La definizione di servizi pubblici essenziali, che peraltro la stessa legge n. 146 del 1990 limita "agli effetti" della legge stessa, potrebbe però non essere appagante, in considerazione del fatto che il piano vaccinale parla di "servizi essenziali" e non di "servizi pubblici essenziali", e quindi sembra riferirsi ad una categoria più vasta.

D’altra parte, le limitazioni contenute nell’individuazione dei servizi oggetto di particolare tutela è connessa al fatto che l’esercizio del diritto di sciopero deve subire il minore sacrificio possibile.

Non tutti i servizi essenziali sono poi servizi pubblici nel nostro ordinamento, posto che lo stesso non contempla una definizione legislativa della nozione di pubblico servizio, o quanto meno dei suoi contenuti tipici, nonostante dalla qualificazione di un’attività come servizio pubblico derivino una serie non irrilevante di conseguenze giuridiche.

Soltanto il codice penale, nel delineare la qualifica che deve possedere l’intraneus in alcuni specifici reati contro la pubblica amministrazione, formula una definizione di servizio pubblico, avente peraltro contenuto negativo e applicabilità limitata al solo ordinamento penale.

Un altro contributo definitorio alla ricostruzione del concetto di servizio pubblico è poi contenuto, oltre che nella citata L. n. 146 del 1990, nel codice del processo amministrativo, il quale, nel delineare le materie di giurisdizione esclusiva, include tra queste la materia dei pubblici servizi, con particolare riferimento a concessioni e affidamenti di essi, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità, oltre che alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare.

Resta però sfuggente l’inquadramento legislativo del contenuto tipico del servizio pubblico, che si è andato invece definendo in via pretoria in correlazione con il passaggio dalla concezione soggettiva a quella oggettiva di esso e all’analisi degli elementi organizzativi e del rapporto con i destinatari del servizio.

La conseguenza più rilevante della concezione oggettiva è che il soddisfacimento dell’interesse pubblico può essere assicurato anche solamente da privati, senza che l’Ente pubblico assuma ruoli di prestazione diretta, conservando semplicemente poteri di regolazione delle attività private svolte ed esercitate in concorrenza tra loro. L’intervento statale e degli altri enti territoriali, in questo caso, si limita ad un’attività di regolazione delle attività private, attraverso vari strumenti correttivi delle energie del mercato (come, ad es., obblighi di servizio pubblico, contratti di servizio, poteri di approvazione tariffaria o di determinazione di tariffe più basse di quelle derivanti dal confronto concorrenziale, carte di servizio).

D’altra parte, in ambito comunitario non viene utilizzata l’espressione servizio pubblico, ma è presente, invece, la nozione di servizio di interesse generale, che può essere fornito dallo Stato o dai privati.

Secondo l’UE, vi sono, in particolare, tre categorie di servizi di interesse generale: economici, non economici e sociali.

I servizi di interesse economico generale sono servizi di base forniti dietro pagamento, come i servizi postali; i servizi non economici si identificano con la polizia, la giustizia e i regimi previdenziali previsti dalla legge; i servizi sociali di interesse generale sono quelli che rispondono alle esigenze dei cittadini vulnerabili, e si basano sui principi di solidarietà e accesso paritario, potendo essere sia di natura economica che non economica (ad esempio, i sistemi previdenziali, i servizi per l’occupazione e l'edilizia sociale).

L'unico riferimento alla locuzione "servizi essenziali" nell’ordinamento interno è così contenuto nell'art. 26, comma 5 del d.lgs. n. 81 del 2008 (Obblighi connessi ai  contratti  d'appalto  o  d'opera  o  di somministrazione, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) dove si precisa che “Nei singoli contratti di subappalto, di  appalto  e  di somministrazione, anche qualora in essere al momento della data di entrata in vigore del presente decreto, di cui agli articoli 1559, ad esclusione dei contratti di somministrazione di beni e servizi essenziali, 1655, 1656 e 1677 del codice civile, devono essere specificamente indicati a pena di nullità ai sensi dell'articolo 1418 del codice civile i costi relativi alla sicurezza del lavoro con particolare riferimento a quelli propri connessi allo specifico appalto".

Ma anche questa norma non ci aiuta a capire cosa siano i servizi essenziali, per cui o si ritiene che la legge di bilancio per il 2021 abbia implicitamente autorizzato le Regioni, in sede di attuazione del piano vaccinale, a individuare di volta in volta, e tramite meri atti amministrativi, tutti i soggetti che fanno parte delle singole categorie “prioritarie”, oppure resta necessaria un’ulteriore integrazione del piano vaccinale nazionale che meglio delinei, in coerenza con i principi di equità, reciprocità, legittimità e protezione professati dal piano medesimo, chi debba avere prioritariamente l’accesso alla protezione da una malattia i cui effetti sono così devastanti per il sistema sociale ed economico del Paese.


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