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Diritto alla vita, diritto alla famiglia ed emancipazione dai modelli tradizionali di genitorialità

giu 09, 2021

Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, sez. I, 27 gennaio 2021


IL CASO E LA DECISIONE

Una donna ha chiesto al Tribunale ordinario, con ricorso ex art. 700 c.p.c., di ordinare al centro in cui erano stati trasportati quattro “suoi” embrioni crioconservati, nati dalla fecondazione dell’ovocita tramite procreazione medicalmente assistita (PMA), di procedere con urgenza all'impianto degli embrioni in utero.

L’iter di fecondazione assistita era stato inizialmente avviato con il consenso della donna stessa e di suo marito, ma, successivamente, non era stato portato a termine per motivi di salute.

A seguito della separazione intervenuta tra i coniugi, infine, la donna, che nel frattempo ha superato i 40 anni, avrebbe voluto procedere allo scongelamento degli embrioni crioconservati, mentre l’uomo si era opposto a tale scongelamento sul presupposto che i due non erano più una coppia e che dunque avrebbe dovuto ritenersi implicitamente revocato il consenso inizialmente prestato alla PMA.

Il Giudice di prime cure ha concesso la cautela richiesta dalla parte, con decisione che è stata confermata dall’ordinanza emessa dal Tribunale adito in sede di reclamo.

In particolare, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha così articolato i passaggi principali della sua motivazione:

- la legge 40/2004 tutela espressamente l'embrione, al quale è riconoscibile un grado di soggettività correlato alla genesi della vita e non certamente riducibile a mero materiale biologico, essendo espressamente riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell'embrione, riconducibile al precetto generale dell'art. 2 della Costituzione, e dovendo ritenersi tale tutela suscettibile di affievolimento solo in casi di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in termini di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti;

- la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, come dichiarato all'art. 1 della L. n. 40/2004, è attuata assicurando, da un lato, la consapevolezza del consenso alla P.M.A. e la possibilità di revoca sino alla fecondazione, e, dopo tale momento, ritenendo prevalente il diritto alla vita dell'embrione, che potrà essere sacrificato solo a fronte del rischio di lesione di diritti di pari rango ritenuti prevalenti, perché facenti capo, per esempio, a soggetti già viventi (per lo più, a tutela della salute della donna);

- non risulta prevalente il diritto alla famiglia costituita da coniugi non separati rispetto al diritto alla vita dell'embrione;

- gli interessi delle parti, e in particolare le esigenze di tutela dei terzi “nuovi partner”, devono bilanciarsi con la tutela dell'aspettativa di vita dell'embrione;

- nemmeno è ravvisabile un trattamento sanitario obbligatorio in contrasto con l'art. 13 della Costituzione, in quanto il divieto di revoca del consenso dopo la fecondazione non impone alcun trattamento sanitario non voluto, limitandosi a produrre effetti vincolanti sull'assunzione di genitorialità, né si ravvede il contrasto con i principi in materia di consenso informato, in quanto, in ambito sanitario, il consenso non costituisce accordo, ma assenso, ossia una manifestazione di volontà che non si coniuga con un'altra volontà, con la conseguenza che esso non crea un vincolo, ma soltanto un'autorizzazione per il medico, sempre revocabile;

- tenendo peraltro conto della ratio legis, volta alla tutela non solo degli interessi privatistici dei soggetti coinvolti ma anche pubblicistici di ordine etico e sanitario, una corretta interpretazione logica impone di ritenere che, ferma la necessità per la struttura di adempiere agli obblighi informativi per ogni fase del trattamento, il consenso deve essere rinnovato solo in caso di rilevate problematiche o anomalie del processo di fecondazione.

Il Tribunale ha dunque respinto il reclamo concludendo che da un punto di vista formale non vi era alcuna necessità di integrare il consenso già reso e divenuto irrevocabile con la fecondazione, di modo che tale consenso avrebbe dovuto dispiegare effetti anche nei confronti della diversa struttura incaricata di proseguire il processo attivato, perché ciò che rileva per la legge è soltanto che le parti abbiano prestato il consenso, e che non abbiano precluso la possibilità di optare per una diversa struttura, come in effetti avvenuto nel caso di specie.


QUESTIONI INTERPRETATIVE 

Gli embrioni non sono persone giuridiche e non hanno capacità giuridica ai sensi dell'art. 1 c.c., ma sono destinatari delle sole garanzie previste dalla legge.

Al riguardo, occorre comprendere se la ratio della L. n. 40/2004 sia nel senso di attribuire rilievo “al diritto alla vita” del concepito e, in caso di risposta affermativa, entro quali limiti.

La legge 40 sopra citata tutela non solo gli interessi dei privati che accedono alla PMA ma anche gli interessi pubblicistici sottesi alla delicata materia che involge la genesi della vita, di ordine etico e sanitario.

L'art. 1 dice che “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana è consentito il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, alle condizioni e secondo le modalità previste dalla presente legge, che assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”. Nei lavori preparatori alla legge si parla poi espressamente di diritto alla vita dell'embrione, e su questo diritto è costruito l'intero impianto della legge stessa; il concepito si identifica dunque con l'embrione, specie se si considera che, sempre nei lavori preparatori, si legge, con riguardo all'art 13, che pone il divieto di sperimentazione sugli embrioni, che "Le disposizioni in questione danno quindi fondamento al diritto del concepito a nascere previsto dall'articolo 1”. La preminente tutela della vita è consacrata, poi, dalla disposizione dell'art. 6, comma 3, e dall'art. 14.

L'art. 6 espressamente sancisce l'irrevocabilità del consenso successivamente alla fecondazione e l'art. 8 attribuisce alla volontà manifestata, irrevocabile con la fecondazione, funzione determinativa della maternità, della paternità e dello status di figlio, escludendo, in conformità della ratio della legge, la rilevanza di comportamenti e di eventi successivi alla fecondazione dell'ovulo.

La libertà di ripensamento di una delle parti è dunque ammessa solo fino alla fecondazione medesima.

E dunque, la genitorialità del nato a seguito del ricorso a tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) è legata anche al "consenso" prestato, e alla "responsabilità" conseguentemente assunta, da entrambi i soggetti che hanno deciso di accedere ad una tale tecnica procreativa.

I nati a seguito di un percorso di fecondazione medicalmente assistita hanno lo stato di «figli nati nel matrimonio» o di «figli riconosciuti» della coppia che questo percorso ha avviato, così come, con riguardo alla fecondazione di tipo eterologo, il coniuge o il convivente della madre naturale, pur in assenza di un suo apporto biologico, non può, comunque, poi esercitare l'azione di disconoscimento della paternità né l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Sotto questo profilo, l’unico limite alla PMA nel nostro ordinamento, come recentemente confermato anche dalla Corte costituzione, è che occorre pur sempre che quelle coinvolte nel progetto di genitorialità così condiviso siano coppie «di sesso diverso», atteso che le coppie dello stesso sesso non possono accedere, in Italia, alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Invero, secondo la Corte costituzionale, l’esclusione dalla PMA delle coppie formate da due donne non è fonte di alcuna distonia e neppure di una discriminazione basata sull'orientamento sessuale, e nello stesso senso si è espressa la Corte europea dei diritti dell'uomo, per la quale una legge nazionale che riservi il ricorso all'inseminazione artificiale a coppie eterosessuali sterili, attribuendole una finalità terapeutica, non può essere considerata fonte di una ingiustificata disparità di trattamento nei confronti delle coppie omosessuali, rilevante agli effetti degli artt. 8 e 14 CEDU: ciò proprio perché la situazione delle seconde non è paragonabile a quella delle prime.

Né ad opposte conclusioni, sempre secondo la Corte costituzionale, può condurre la legge n. 76 del 2016, che – pur riconoscendo la dignità sociale e giuridica delle coppie formate da persone dello stesso sesso - non consente, comunque, la filiazione, sia adottiva che per fecondazione assistita, in loro favore, in quanto dal rinvio che il comma 20 dell'art. 1 di detta legge opera alle disposizioni sul matrimonio (cosiddetta clausola di salvaguardia) restano  escluse, perché non richiamate, quelle, appunto, che regolano la paternità, la maternità e l'adozione legittimante.

La scelta, operata dopo un ampio dibattito dal legislatore del 2016, di non riferire le norme relative al rapporto di filiazione alle coppie dello stesso sesso, cui è pur riconosciuta la piena dignità di una «vita familiare» sottende l'idea, «non [...] arbitraria o irrazionale», che «una famiglia ad instar naturae - due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile - rappresenti, in linea di principio, il "luogo" più idoneo per accogliere e crescere il nuovo nato» (così la Corte costituzionale, sentenza n. 221 del 2019).

E tale scelta non violerebbe gli artt. 2 e 30 Cost., perché l'aspirazione della madre intenzionale ad essere genitore non assurge a livello di diritto fondamentale della persona.

A sua volta, l'art. 30 Cost. non pone una nozione di famiglia inscindibilmente correlata alla presenza di figli e la libertà e volontarietà dell'atto che consente di diventare genitori non implica che possa esplicarsi senza limiti. E ciò poiché deve essere bilanciata, tale libertà, con altri interessi costituzionalmente protetti, in particolare quando si discuta della scelta di ricorrere a tecniche di PMA, le quali, alterando le dinamiche naturalistiche del processo di generazione degli individui, aprono scenari affatto innovativi rispetto ai paradigmi della genitorialità e della famiglia storicamente radicati nella cultura sociale, attorno ai quali è evidentemente costruita la disciplina degli artt. 29, 30 e 31 Cost., suscitando inevitabilmente, con ciò, delicati interrogativi di ordine etico.

Né sussiste la violazione del principio di uguaglianza tra situazioni simili, in quanto la circostanza che esista una differenza tra la normativa italiana e le molteplici normative mondiali è un fatto che non può obbligare un’evoluzione in tal senso dell'ordinamento nazionale, posto che, diversamente opinando, la disciplina interna dovrebbe essere sempre allineata, per evitare una lesione del principio di eguaglianza, alla più permissiva tra le legislazioni estere che regolano la stessa materia.

Tornando dunque alla fecondazione assistita omologa a cui abbiano prestato il consenso soggetti di sesso diverso, la Corte di Cassazione si è trovata recentemente ad affrontare anche il tema della fecondazione della donna dopo la morte del marito con embrioni crioconservati, e si è interrogata sulla possibilità di estendere ad un caso del genere le strette maglie della disciplina codicistica sulla presunzione di concepimento di cui all’art. 232 c.c., secondo cui “si presume concepito durante il matrimonio il figlio nato quando non sono ancora trascorsi trecento giorni dalla data dell'annullamento, dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio”.

In particolare, i giudici di legittimità hanno dovuto stabilire se i divieti di genitorialità pure evincibili dal nostro ordinamento possano fungere da "controlimite" alla tutela dei diritti di chi è nato, oppure se occorra superare i confini della tradizione ed accettare, regolandoli, i nuovi percorsi della genitorialità stessa.

Nel caso specifico affrontato, la Cassazione ha dovuto decidere se il consenso prestato alla fecondazione assistita dal marito, così come ribadito dallo stesso prima della morte, sia in grado di prevalere, quale atto idoneo a dimostrare la paternità, sul principio secondo cui un concepimento effettuato dopo i trecento giorni dallo scioglimento del matrimonio (la morte di uno dei coniugi è infatti una delle cause di tale scioglimento) non si presume avvenuto durante il matrimonio stesso.

La premessa è che la procreazione nella società della globalizzazione presenta un particolare dinamismo, subordinato agli interessi concreti che è volta a soddisfare, e che, addirittura, mediante l'applicazione delle tecniche di P.M.A. anche dopo la morte di uno dei due partners, finisce con il superare il confine terreno dell'unità coniugale, ma che, comunque, non può prescindere dall'importante ruolo della "responsabilità" genitoriale, che passa da esercizio di un diritto alla procreazione allo svolgimento di una "funzione" genitoriale.

In un tale scenario, nel quale la genitorialità spesso può anche scindersi dal nesso col matrimonio e dalla famiglia, declinandosi in una molteplicità di contesti prima ritenuti inediti, il ruolo della madre resta chiaramente delineato, ma non altrettanto evidente può risultare l’identificazione giuridica della paternità, quando la corrispondenza del fatto reale (paternità dell'ex coniuge della madre ovvero di altra persona) con quello riprodotto nell'atto dello stato civile dipende dall'operare, o meno, della presunzione stabilita dall'art. 232 c.c..

Come detto, in materia di filiazione conseguente all’applicazione dei percorsi medici disciplinati dalla L. n. 40 del 2004, l’art. 8 sotto la rubrica "stato giuridico del nato", sancisce che "I nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita hanno lo stato di figli nati nel matrimonio o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime ai sensi dell'art. 6".

Qualsivoglia sia la valutazione in termini di illiceità/illegittimità, in Italia, della specifica modalità di P.M.A. utilizzata all’estero (quale è ad esempio la fecondazione “post mortem”), tale valutazione non può certamente riflettersi, in negativo, sul nato e sull'intero complesso dei diritti a lui riconoscibili. In altre parole, la circostanza che si sia fatto ricorso all'estero a P.M.A. non espressamente disciplinata (o addirittura non consentita) nel nostro ordinamento, non esclude, ma anzi impone, nel preminente interesse dal nato, l'applicazione di tutte le disposizioni che riguardano lo stato del figlio venuto al mondo all'esito di tale percorso, come, peraltro, affermato, con chiarezza, della Corte EDU nelle due sentenze "gemelle" Mennesson c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26 giugno 2014, ric. n. 65941/11), oltre che sancito anche dalla Corte Costituzionale fin dalla sentenza n. 347 del 1998, che (ancor prima del sopravvenire della L. n. 40 del 2004) sottolineò la necessità di distinguere tra la disciplina di accesso alle tecniche di P.M.A. e la doverosa, e preminente, tutela giuridica del nato, significativamente collegata alla dignità dello stesso.

Occorre, nella pratica, verificare se la disciplina della filiazione nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema alternativo rispetto a quello codicistico, in ragione della peculiarità propria della tecnica de qua, o si inserisca in quest'ultimo, che regola la filiazione da procreazione naturale attraverso la previsione di specifiche eccezioni. Dalla soluzione di tale questione, infatti, deriva l'applicabilità, o meno, alla filiazione da P.M.A. dei principi e criteri attributivi dello status del nato da procreazione naturale, e, poiché lo status risulta in ultima analisi dall'atto di nascita, dalla soluzione della medesima questione discendono anche le regole da seguire nella formazione di tale documento.

Ormai, figlio è non solo chi nasce da un atto naturale di concepimento ma anche colui che venga al mondo a seguito di fecondazione assistita (omologa o eterologa, quest'ultima nella misura in cui è oggi consentita dalla L. n. 40 del 2004 a seguito dei ripetuti interventi della Corte costituzionale), o colui che sia tale per effetto di adozione: ciò dimostra che i confini, una volta ritenuti invalicabili, del principio tradizionale della legittimità della filiazione sono ormai ampiamente in discussione. In base agli artt. 2 e 30 Cost., del resto, il nato ha diritto, oltre che di crescere nella propria famiglia, di avere certezza della propria provenienza biologica, rivelandosi questa come uno degli aspetti in cui si manifesta la sua identità personale.

Orbene, secondo una prima opinione, che muove dall'assunto che la disciplina di attribuzione dello status nella procreazione medicalmente assistita configuri un sistema del tutto alternativo rispetto a quello codicistico, lo status di figlio del nato da P.M.A. non deriverebbe dalle regole applicabili alla generazione biologica naturale, diverse a seconda che il figlio sia nato nel matrimonio o fuori di esso, poiché, invece, detto status verrebbe attribuito direttamente dalla legge e, inscindibilmente, nei confronti della coppia che abbia espresso la volontà di accedere alle tecniche di P.M.A., indipendentemente dal fatto che i genitori siano, o meno, sposati, sicché il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale (che non risulti revocato fino al momento della fecondazione dell'ovulo) avrebbe un significato diverso ed ulteriore rispetto a quello ascrivibile alla nozione di "consenso informato" al trattamento medico e governerebbe lo status identificando la maternità e la paternità del nato nella forma più ampia e certa, senza bisogno di ulteriori manifestazioni di volontà.

Per chi ritiene, viceversa, che al nato da P.M.A. si applichino i medesimi principi in tema di filiazione naturale, il consenso dato dal coniuge o convivente alla fecondazione artificiale non inciderebbe direttamente sull'attribuzione dello status del figlio, ma avrebbe solo la funzione di consentire al figlio di identificare il proprio genitore grazie all'assenso da lui prestato alla P.M.A..

Un siffatto dilemma interpretativo produce i suoi effetti anche sullo status del figlio nel caso di fecondazione medicalmente assistita post mortem, dovendosi, peraltro, rimarcare che rientrano, in questo particolare contesto, ipotesi affatto diverse tra loro, quali: il prelievo del seme dal cadavere dell'uomo; l'inseminazione artificiale della donna con seme crioconservato, prelevato dal partner prima del decesso; infine, l'impianto, nel corpo della donna, dell'embrione formatosi quando entrambi i componenti la coppia erano in vita.

La L. n. 40 del 2004, art. 5, nel riservare l'accesso alla procreazione a coppie i cui membri siano "entrambi viventi", sembra escludere che possa ricorrervi una donna vedova, sotto pena di sanzioni amministrative (art. 12, della medesima legge), probabilmente allo scopo di evitare i pregiudizi che al minore potrebbero eventualmente derivare a causa della mancanza della figura paterna. La norma, tuttavia, non precisa in quale momento del complesso procedimento fecondativo sia richiesta la presenza in vita di entrambi i membri della coppia, sicché spetta all'interprete, alla luce dei principi sottesi alla disciplina in materia, stabilire se debbano considerarsi illecite, o meno, tutte e tre le diverse ipotesi precedentemente prospettate, ed a tal fine non potrebbe prescindersi da quanto sancito dal successivo art. 6, comma 1, - a tenore del quale, per le finalità indicate dal comma 3 del medesimo articolo (afferente il consenso informato dei soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita), "prima del ricorso ed in ogni fase di applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita il medico informa in maniera dettagliata i soggetti di cui all'art. 5..." - norma che, almeno prima facie, sembra postulare l'esistenza in vita dei menzionati soggetti appunto in ogni fase di applicazione della tecnica prescelta.

Peraltro, una volta verificatasi la nascita, non ci si può sottrarre all'individuazione della disciplina da applicarsi in materia di filiazione. Tanto, per la evidente ragione che, in ogni caso, il nostro ordinamento non può disinteressarsi dei correlativi diritti del soggetto venuto al mondo a seguito di una procreazione medicalmente assistita post mortem eventualmente effettuata dal cittadino italiano in un Paese ove tale pratica è ammessa ed avvenuta nel pieno rispetto dei limiti temporali di sua esecuzione prevista dalla corrispondente disciplina.

Si pone, allora, la necessità di individuare, nel silenzio del legislatore, lo status del figlio in tal modo venuto al mondo. Infatti, a differenza di quanto previsto per la procreazione eterologa (inderogabilmente vietata nel disegno originario della L. n. 40 del 2004, ma alla quale oggi possono accedere, invece, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 162 del 2014, le "coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi" per le quali è stata accertata e certificata una patologia che sia causa irreversibile di sterilità o infertilità per uno o per entrambi i partner), nel caso di procreazione post mortem la nuova normativa non detta una disciplina dedicata alla fattispecie (in ipotesi) vietata, sicché occorre chiedersi se possa applicarsi la L. n. 40 del 2004, art. 8, sullo status giuridico del nato, anche quando il figlio sia nato (come nella specie) oltre i trecento giorni dalla morte del padre.

Il riferimento agli "atti concludenti" di cui all’art. 9, comma 1 della L. n. 40 del 2004, da cui deve desumersi il consenso alla tecnica della procreazione eterologa "lecita", costituisce un argomento significativo per ritenere, fondatamente, che questi stessi "atti concludenti" siano idonei a maggior ragione a dimostrare il consenso alle pratiche lecite di procreazione assistita omologa, essendo innegabile che la genitorialità di cui al citato art. 8 spetti alla coppia, coniugata o convivente, che abbia voluto congiuntamente accedere alla tipologia di P.M.A. consentita anche nel nostro ordinamento.

La legge 40 sopra citata esprime, poi, l'assoluta centralità del consenso come fattore determinante la genitorialità in relazione ai nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di P.M.A.. La norma non contiene alcun richiamo ai suoi precedenti artt. 4 e 5, con i quali si definiscono i confini soggettivi dell'accesso alla P.M.A., così dimostrando una sicura preminenza della tutela del nascituro, sotto il peculiare profilo del conseguimento della certezza dello status filiationis, rispetto all'interesse, pure perseguito dal legislatore, di regolare rigidamente l'accesso a tale diversa modalità procreativa.

E’ dunque possibile l'applicazione della disciplina della L. n. 40 del 2004, art. 8 (anche) alla specifica ed affatto peculiare ipotesi di cui fecondazione post mortem, apparendo del tutto ragionevole la conclusione che il/la nato/a allorquando il marito (o il convivente) sia morto dopo avere prestato e ribadito prima del decesso il consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita ai sensi dell'art. 6 della medesima legge e prima della formazione dell'embrione avvenuta con il proprio seme precedentemente crioconservato (di cui, prima del decesso, abbia, altresì, autorizzato l'utilizzazione) sia da considerarsi figlio nato nel matrimonio della coppia che ha espresso il consenso medesimo prima dello scioglimento, per effetto della morte del marito, del vincolo nuziale. In tal caso, benché manchi il requisito della esistenza in vita di tutti i soggetti al momento della fecondazione dell'ovulo, deve ritenersi che, una volta avvenuta la nascita, il/la figlio/a possa avere come padre colui che ha espresso il consenso ex art. 6 della legge predetta, senza mai revocarlo, dovendosi individuare in questo preciso momento la consapevole scelta della genitorialità.

Tale scelta interpretativa deve peraltro fondarsi sulla rilevanza che assume la discendenza biologica, della quale deve essere fornita idonea prova, tra l'uomo che ha comunque espresso un consenso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, altresì autorizzando l'utilizzazione del proprio seme precedentemente prelevato e crioconservato, ed il nato, e prescinde, pertanto, da ogni considerazione in ordine al tempo e alla liceità del concepimento (non potendo riflettersi sul nato eventuali responsabilità dei genitori e/o dei medici che hanno assecondato i loro progetto). Proprio perché le tecniche in questione rendono possibile il differimento della nascita, senza per questo incidere sulla certezza della paternità biologica, si rivelano dunque inapplicabili, in materia, quei principi, dettati nel codice civile (artt. 232 e 234 c.c., ma si veda anche l'art. 462 c.c., comma 2), basati su un sistema di presunzioni tramite le quali si cerca di stabilire quella certezza.

Alla predetta soluzione, peraltro, nemmeno sembra di assoluto ostacolo l'assunto secondo cui l'ordinamento deve proteggere l'infanzia garantendo il diritto ad avere una famiglia composta da due figure genitoriali, nel chiaro intento positivo di considerare prevalente la tutela del nascituro rispetto al diritto alla genitorialità. Al contrario, si può comunque osservare che, nel caso della fecondazione post mortem, l'alternativa è il non nascere affatto, e che  l'affermazione secondo cui nascere e crescere con un solo genitore integri una condizione esistenziale negativa non sembra potersi enfatizzare al punto tale da preferire la non vita.

D'altra parte, superate le "barriere" concettuali e normative che si frappongono tra la fecondazione assistita e la nascita, l'interesse del nato da tutelare diventa anche quello di acquisire rapidamente la certezza della propria discendenza bi-genitoriale, elemento di primaria rilevanza nella costruzione della propria identità.

L'ordinamento "flette" così, sospinto dalla straordinaria evoluzione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, verso una dimensione dello status di figlio che prescinde dalle umane vicende (separazione, morte) che causano la disgregazione della coppia di genitori dopo la fecondazione in vitro, o addirittura anche prima, una volta che questi abbiano validamente espresso il consenso a tale fecondazione, e che dilata nel tempo il tradizionale concetto di riproduzione umana.


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