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Come eravamo (e come siamo rimasti). Unicità di accesso e di carriere: il curioso caso dei Giudici amministrativi

di Gabriella De Michele, Magistrato amministrativo in quiescenza • mag 24, 2021

Premessa

a cura di Roberto Lombardi

Il Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, nella seduta del 21 maggio appena trascorso, è stato impegnato nel dibattito su due questioni di particolare importanza per l'assetto del plesso giurisdizionale che rappresenta.

Da un lato, occorreva decidere sull'istanza di un magistrato del Consiglio di Stato tesa ad ottenere l’inclusione dell’anzianità da lui maturata in primo grado in quella computata ai fini dell’attribuzione degli incarichi direttivi in appello; dall'altro, si è reso necessario interpretare, su istanza di un'associazione di categoria, l’art. 19, comma 1, n. 3, terzo periodo, della legge 27 aprile 1982, n. 186, al fine di verificare i "confini" di tale norma in termini di retrodatazione fittizia dell'anzianità di servizio dei vincitori del concorso per Consigliere di Stato.

Il Consiglio di Presidenza - sostanzialmente diviso in due nelle votazioni (da una parte la componente TAR più un magistrato del CdS ex TAR e dall'altra la componente concorsuale del Consiglio di Stato e quella "laica") - ha per un verso risposto negativamente alla prima istanza, e per altro verso interpretato l'art. 19 sopra citato escludendo la retrodatazione fittizia per i Consiglieri di Stato vincitori di concorso, ai soli fini della nomina a presidente di sezione del Consiglio di Stato stesso.

La vicenda, per i non addetti ai lavori, parrebbe avere un mero rilievo "interno" e/o di natura tecnica.

In realtà, arriva ad esito di un percorso storico che parte dalla scelta della Costituzione di "salvare" alcuni Giudici speciali, tra cui il CdS, e arriva al riconoscimento "esterno" della pari dignità del Giudice amministrativo rispetto al Giudice ordinario, quale "garante" effettivo di interessi legittimi e diritti soggettivi (anche fondamentali), passando per la tardiva istituzione del Giudice amministrativo di primo grado, formalizzata dalla legge n. 1034 del 6 dicembre 1971.

La "separazione" tra TAR e Consiglio di Stato, astrattamente Giudici di primo e secondo grado all'interno dello stesso plesso giurisdizionale, pur essendo stata pienamente superata dal punto di vista delle garanzie processuali - anche per merito dell'introduzione del Codice del processo amministrativo - è rimasta sotto altro profilo, anche se in modo subdolo, a causa di tutta una serie di questioni ordinamentali irrisolte.

Si è creata in particolare, con il tempo, una sempre più visibile "barriera" tra i magistrati entrati al Consiglio di Stato tramite concorso diretto e i magistrati transitati dal primo al secondo grado per anzianità, barriera che costituisce un "unicum" nel panorama giurisdizionale italiano, e che risente di uno squilibrio strutturale tra i due Giudici che ha trovato copertura costituzionale e "avallo" da parte del Giudice delle Leggi.

In mezzo, tutta una serie di incontri e scontri che testimoniano la persistenza di un problema ordinamentale che a tratti non sembra essere tanto giuridico, quanto ideologico e lato sensu sociologico, e che sono la spia, per certi versi, dell'indole utilitaristica che spesso e volentieri caratterizza una certa concezione del potere.

Ma per conoscere meglio il presente, e affrontare con le idee chiare il futuro, è come al solito necessario ripercorrere con cura il passato. 

Gabriella De Michele, che è stata prima giudice della Corte dei Conti, poi per ventitré anni giudice amministrativo di primo grado, per otto anni giudice amministrativo di secondo grado e per quattro anni Presidente di TAR, oltre che Presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (ANMA) e del Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (CoNMA), ci aiuta, dall'alto della sua esperienza di parte sul "campo", a compiere questo sforzo ricostruttivo e generazionale, con una forza narrativa che supera spesso i confini della mera cronaca per trasformarsi in un intrigante racconto di situazioni in chiaroscuro che offrono, come in un gioco di specchi - per chi sa cogliere le similitudini con altre più importanti e note evoluzioni ordinamentali -, un significativo ed esemplare spaccato delle vicende italiane degli ultimi quarant'anni. 


Magistrati amministrativi: come eravamo (e come siamo rimasti)

di Gabriella De Michele

Nella bufera – di immagine e autorevolezza – che sta investendo la magistratura italiana, tra segnalazioni di inefficienza e insinuazioni scandalistiche, emerge una storia ancora da scrivere: una storia, che attiene al ruolo svolto dalle associazioni di categoria.

Per la magistratura amministrativa, in particolare, vanno in primo luogo ricostruite le ragioni di rappresentanze diverse e spesso contrapposte (negli ultimi tempi, addirittura quattro per circa quattrocento magistrati).

La prima causa, in effetti, è da ricercare nella molto tardiva – rispetto alle previsioni costituzionali – istituzione del giudice di primo grado, formalizzata dalla legge n. 1034 del 6 dicembre 1971, con primo reclutamento dei giudici per titoli (molti provenienti dalla carriera prefettizia) e primi regolari (nonché altamente selettivi) concorsi solo tra la metà e la fine degli anni settanta. Il sopravvissuto concorso per l’accesso diretto al Consiglio di Stato (giudice in precedenza unico e storico consulente del Governo), nonché l’assenza di funzioni consultive per i magistrati dei Tribunali Amministrativi Regionali determinarono, fin dall’inizio, una “frattura orizzontale” profonda, fra giudici amministrativi di primo e di secondo grado, con netta divaricazione ideologica e, inevitabilmente, anche associativa. Di certo, ai nuovi magistrati TAR venne riservata una posizione appartata e, si potrebbe dire, “ancillare”, rispetto ai potenti “grand commis” del piano superiore.

Non saranno ulteriormente approfondite, in questa sede, le condizioni istituzionali di partenza, né la straordinaria evoluzione della disciplina processuale, intervenuta negli anni successivi, con piena trasformazione del processo amministrativo da giudizio su atti a giudizio sul rapporto fra cittadino e poteri pubblici, nonché sui contrasti fra detti poteri, nella moderna dimensione pubblicistica “a geometrie variabili”, da affrontare con accresciuti strumenti istruttori e pluralismo delle azioni proponibili, non senza piena affermazione del principio di effettività della tutela, estesa all’ambito risarcitorio.

Oggetto dell’attuale riflessione saranno piuttosto le peculiari modalità di uno sviluppo anomalo, che ha interessato solo gli istituti processuali, in un contesto di persistente – ed anzi addirittura crescente – frattura tra primo e secondo grado di giudizio, con sostanziale fallimento di trentennali battaglie associative, condotte – fra gli anni ottanta del secolo scorso e il primo decennio del duemila – per la realizzazione di un Plesso giurisdizionale unitario.

E’ quindi necessario fare un passo indietro, per focalizzare l’attenzione sulle caratteristiche e sugli sviluppi dell’associazionismo giudiziario, con prioritario riguardo al settore della Giustizia Amministrativa.

 I Tribunali Amministrativi Regionali compaiono, come già accennato, tardivamente e in via subordinata (per reclutamento e carriera) rispetto al Consiglio di Stato: negli anni settanta c’era ancora chi riteneva che, per la relativa collocazione costituzionale, si trattasse di organi regionali, appena un po’ più evoluti delle vecchie Giunte provinciali amministrative. Con il crescente reclutamento concorsuale, tuttavia, cominciò ad affermarsi una diversa consapevolezza di sé dei nuovi magistrati, che all’inizio del 1980 misero in atto drastiche proteste, non escluse iniziative di sciopero, per ottenere una più dignitosa regolamentazione del Plesso giurisdizionale nella sua interezza. E’ improbabile che siano ancora in servizio alcuni dei protagonisti associativi di allora e, se ci fossero, la categoria non avrebbe molte ragioni per ringraziarli: la legge n. 186 del 1982, frutto di quelle prime battaglie, è infatti all’origine di molti mali, dei quali non dovrebbe rallegrarsi nemmeno l’apparente parte vincitrice, come più avanti si cercherà di illustrare. Di fatto, l’Associazione di categoria dei magistrati TAR e quella dei Consiglieri di Stato si mossero su linee strategiche molto diverse: la prima, ottenendo un cospicuo vantaggio per chi conduceva la trattativa (il passaggio al Consiglio di Stato con tutta l’anzianità maturata nella qualifica di consigliere e, per chi non possedesse tale qualifica ma fosse già in servizio, riconoscimento “forfettario” di cinque anni: quota percentuale, all’epoca, di discreta rilevanza, essendo il passaggio in questione molto anticipato rispetto ai tempi attuali); la seconda – guardando più lontano – ottenne che nulla venisse disposto per i successivi reclutamenti di magistrati TAR, ma che il riconoscimento dell’intera anzianità per i relativi consiglieri avesse luogo “limitatamente” alle Presidenze dei medesimi Tribunali (art. 21, comma 4, della citata legge n. 186/82). Negli anni successivi con granitica giurisprudenza, avallata anche dalla Corte Costituzionale, tale disposizione implicò la perdita dell’intera anzianità, per chi – senza essere stato in servizio nel 1982 – fruisse della prevista quota del 50% di posti nel Consiglio di Stato, riservata ai magistrati TAR. La rappresentanza associativa dei Consiglieri di Stato operò quindi, a differenza della rappresentanza TAR, quella che più avanti venne definita la tutela dei propri “nascituri”, ovvero dei futuri magistrati reclutati per concorso. Quanto sopra, con conseguenze ben più ampie e importanti di quelle superficialmente prevedibili.

Il concorso che, alla data di istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, era solo l’ordinaria modalità di accesso alla Magistratura amministrativa – venendo sostanzialmente a “sdoppiarsi” –, fu all’origine di quello, che, più di trent’anni dopo la Corte Costituzionale, nella nota sentenza n. 273 del 2011, definì uno “spartiacque” fra primo e secondo grado di giudizio. In nome delle funzioni consultive, infatti, l’accesso al Consiglio di Stato veniva in pratica configurato come un nuovo inizio di carriera (solo leggermente anticipato per i “concorsuali” CdS: un regalo, per legge, di circa due o più anni, come se fossero entrati in servizio alla data di indizione del concorso); quanto sopra, tuttavia, nella contraddittoria dimensione di “ruolo unico”, affermato nella misura – e nei limiti – in cui si desiderava calcolare sul primo grado i posti, resi disponibili per pensionamenti e passaggi in fuori ruolo, da destinare anche ai concorsi per il CdS.

Le conseguenze puramente anagrafiche del doppio concorso, per il primo ingresso nella magistratura in questione, resero inoltre inaccessibili, per i magistrati TAR, le funzioni direttive in appello. Le caratteristiche dei concorsi per la magistratura – su base nozionistica, approfondita al massimo livello – implicano infatti una importante fase preparatoria di puro studio, normalmente affrontata prima dell’inizio del percorso professionale prescelto: ovvero, anche per una magistratura con accesso “di secondo grado”, come quella amministrativa, fra i trenta e i trentacinque anni di età. Ogni “concorsuale” del CdS, pertanto, “libera” un posto per pensionamento, in media, dopo più di trent’anni e, per ogni posto liberato, solo mezzo è riservato al passaggio per anzianità dal primo grado. Le “quote”, teoricamente previste dalla legge per l’inserimento nel ruolo dei Consiglieri di Stato, quindi, non sono fisse, ma “scorrono” a velocità diverse: quella dei “concorsuali” è più bassa, ma si sedimenta per tempi lunghissimi, sconosciuti ad ogni altra magistratura superiore, a cui si accede in età più avanzata (e percentualmente, pertanto, il numero degli appartenenti continua a crescere); la quota dei magistrati TAR scorre con tempi analoghi in primo grado, ma, con ogni pensionamento, “regala” un quarto di posto al concorso per il CdS, così come avviene attraverso il più veloce scorrimento della “quota” di nomina governativa (almeno in passato, composta da soggetti inizialmente più anziani). Ma non basta: alla “rendita di posizione”, così garantita per merito anagrafico, i “negoziatori” del 1982 aggiunsero appunto, come già ricordato, la preclusa valutazione, nel ruolo di appello, di tutta l’anzianità maturata in primo grado nelle tre qualifiche di Referendario, Primo Referendario e Consigliere, per un totale che può avvicinarsi ai venticinque o trenta anni di servizio in magistratura.

In tale contesto emergono situazioni paradossali, mantenendosi nella magistratura amministrativa il ferreo rispetto dell’ordine di anzianità, per l’accesso a qualifiche superiori: principio in sé giusto (basti pensare al “vaso di Pandora”, aperto dalla magistratura ordinaria con il relativo abbandono), ma reso illogico dall’azzeramento dell’intera carriera, svolta esercitando funzioni giurisdizionali di primo grado (mentre, come è noto, l’interruzione di tali funzioni per periodi – anche lunghissimi – trascorsi in posizione di “fuori ruolo” non comporta alcuna penalizzazione). Una vera e propria contraddizione in termini, quando si consideri che l’avanzamento per anzianità viene giustificato come “merito assoluto”, corrispondente all’esperienza maturata. Al momento attuale, sono ormai prossimi alla linea di pensionamento (o l’hanno appena varcata) i magistrati amministrativi, entrati in servizio nel decennio successivo alla “trattativa” del 1982, con il seguente quadro riferibile alle qualifiche direttive: nessun Presidente di sezione del Consiglio di Stato proviene dal TAR per anzianità, tutti i Consiglieri di Stato entrati per concorso sono stati investiti nel corso del tempo – anche mentre si trovavano in posizione di fuori ruolo – delle funzioni direttive in questione (per le quale si riconoscono venti posti, su una platea di poco più di cento magistrati); non tutti i magistrati TAR sono invece pervenuti, nello stesso trentennio, all’equivalente qualifica direttiva di Presidente di Tribunale (più o meno un numero di posti uguale, ma in rapporto a circa quattrocento magistrati, la maggior parte dei quali “si accontenta”, fino al collocamento a riposo, della qualifica semi-direttiva di Presidente di sezione interna, mentre più volte le stesse Presidenze di TAR sono state assegnate a Consiglieri di Stato). 

In tale contesto, molti magistrati TAR rinunciano alla pur preziosa esperienza dell’esercizio di funzioni di appello (dalle quali, peraltro, è preclusa la “discesa” alle Presidenze di sezione interna) e – se decidono di assumere dette funzioni superiori – si trovano ad operare con Presidenti più giovani, che hanno in effetti superato un ulteriore concorso (con una prova scritta in più, ma erano già quattro per il primo grado), senza comunque che di tale concorso – comunque simile per modalità e contenuti – sia definita la natura: se quale progressione nella medesima carriera, o quale accesso ad una carriera diversa. Nel primo caso, con uno sbilanciamento di prospettive che (nei termini sopra esaminati) oltrepassa ogni criterio di proporzionalità e ragionevolezza; nel secondo, con inevitabili ombre, di seguito meglio esaminate, circa la compatibilità della nuova figura di giudice – “diverso” in quanto anche consulente – con la terzietà che deve caratterizzare il “giusto processo”. Quanto sopra, con l’aggravante del fatto che alla “bravura”, accertata sul piano culturale, non si richiede di aggiungere una corrispondente (non meno preziosa, per pronunciarsi in ultimo grado di giudizio) esperienza giurisdizionale. Lo stesso attuale Presidente aggiunto del Consiglio di Stato è, notoriamente, reduce da una brillante carriera politica, con complessivo esercizio di funzioni giudicanti per poco più di un decennio. Si aggiunga che spesso e volentieri  i Presidenti di sezione del Consiglio di Stato non si dedicano in via esclusiva alle funzioni istituzionali, ma fanno incetta di incarichi extra-istituzionali (quelle che i rigoristi chiamano “carriere parallele”, ma che un autorevole esponente del Consiglio di Stato definì, in un’intervista televisiva, “cursus honorum”), con polemiche che al riguardo non sono mai mancate: qualcuno forse ricorda un divertente articolo degli anni ottanta pubblicato sul settimanale l’“Europeo”, dal titolo “Scappa e Spada”, in cui si giocava sul nome della prestigiosa sede dell’Istituto, per illustrare come fossero regolarmente altrove (in uffici ministeriali e governativi) i più noti Presidenti di sezione del CdS di allora. Per l’attualità, si rinvia alle cronache emergenti ad ogni cambio di Governo, circa la “squadra” dei Consiglieri di Stato di volta in volta “reclutati”, con o senza collocamento in fuori ruolo.

Al tempo parziale dei “bravissimi” si aggiunge l’apporto volenteroso, ma non sempre adeguato, dei Consiglieri di Stato di nomina governativa, nessuno dei quali ha affrontato un concorso di accesso in magistratura, pur avendo alle spalle importanti, ma del tutto diversi percorsi professionali: da ruoli prefettizi a posizioni di comando nel Corpo dei Vigili Urbani. Tali nuovi magistrati – quali persone anche di valore, ma prive della specifica formazione richiesta per il ruolo giudicante – venivano in effetti utilmente collocate, fino a tempi abbastanza recenti, soltanto nelle sezioni consultive, ma – dal 2010 circa in poi – sono stati progressivamente addetti alle sezioni giurisdizionali, con esiti talvolta problematici, di cui si potrebbero fornire ampi riscontri. La “spina dorsale” del Consiglio di Stato – si può affermarlo – è dunque la “componente TAR”, che – con minime percentuali di accesso agli incarichi extra-istituzionali e ancor più ai collocamenti in fuori ruolo – svolge la maggior parte del lavoro istituzionale, concernente le funzioni di relatore ed estensore delle sentenze. Come già accennato, tuttavia, la totale sottrazione dell’anzianità, maturata in primo grado, induce un numero crescente di validi magistrati di TAR a non aspirare al ruolo di Consigliere di Stato: per ogni posto da occupare in appello per la corrispondente quota, pertanto, il ruolo deve “scorrere” di molte posizioni, prima di trovare un soggetto disponibile.

Per le ragioni appena illustrate le sentenze, emesse in ultimo grado di giudizio, provengono in non lieve percentuale da magistrati in possesso di minore esperienza giudiziaria media, rispetto a quelli cui è riconducibile la sentenza di primo grado appellata. Tale sistema – certamente inedito rispetto ad ogni altro Ordine magistratuale, per quanto attiene all’esercizio di funzioni superiori – non sembra in grado di coniugare nel modo migliore l’eccellenza nello studio del diritto con la sensibilità dell’interprete (quest’ultima, senza alcun dubbio, progressivamente maturata attraverso l’espletamento delle funzioni giurisdizionali).

Non può dunque non essere fonte di stupore, per un imparziale osservatore esterno, la costante glorificazione, da parte dei vertici dell’Istituto, della “triplice provvista” di magistrati, che formano il ruolo dei Consiglieri di Stato, risalendo a tale eterogeneità di “provvista” un plausibile abbassamento – in ultimo grado di giudizio – del livello qualitativo delle pronunce, benché di sempre più forte impatto sulla società e sull’economia del Paese. Si vuole, forse, superare tale consapevolezza, concentrando gli esercizi di “bravura” sulle cause di maggiore importanza? Si potrebbe dimostrare che non sempre tale meccanismo – peraltro non certo tollerabile e potenziale fonte di discredito – è stato in grado di funzionare.

Non meno problematica, inoltre, risulta la nozione di “spartiacque”, quale principio introdotto dalla Corte Costituzionale (alla cui composizione, com’è noto, non concorrono i magistrati di TAR), per giustificare l’accesso al Consiglio di Stato “partendo da zero”, in termini di anzianità, per la peculiare funzione anche consultiva dell’Organo di vertice della Giustizia Amministrativa. Se quest’ultima infatti – seguendo l’interpretazione del dettato costituzionale fornita dalla Corte – deve intendersi come “Giustizia” resa, in ultima istanza, da quello che deve continuare ad intendersi come il più alto consulente dell’apparato pubblico, non potrebbe che escludersi l’imparzialità di questo giudice, con impellente esigenza di una riforma costituzionale, come quella preordinata dalla Commissione Parlamentare costituita nel 1997, al fine di ripristinare le regole – nazionali ed eurounitarie – del “giusto processo”. Nessuna voce si è levata, invece, per sottolineare l’incongruità di affermazioni, secondo cui il parere dovrebbe intendersi come mero “ius dicere” (non ontologicamente difforme dalla funzione giurisdizionale) e al tempo stesso – a “corrente alternata”, secondo le esigenze da soddisfare – come espressione di una singolare e diversa professionalità, che per comportare l’irrilevanza di qualsiasi anzianità, maturata nell’esercizio delle medesime funzioni giurisdizionali, non potrebbe che giustificarsi con una peculiare connessione fra il Giudice e il Potere sottoposto a giudizio, ovvero con l’esplicita negazione della terzietà.

Come si è arrivati a questo punto? E come può giustificarsi un ulteriore silenzio, da parte di chi dovrebbe ben comprendere questa insanabile contraddittorietà concettuale? 

Per rispondere, è utile ripercorrere le vicende associative, successive all’approvazione della ricordata legge n. 186 del 1982. 

Si può registrare, in primo luogo, un dato di fatto: i nuovi magistrati TAR – quelli che costituirono ignara “merce di scambio” nella “trattativa” ed entrarono in servizio dopo la promulgazione della legge – trovarono in pochi anni una forte compattezza interna, di cui divenne espressione la rappresentanza di categoria, ovvero l’Associazione Nazionale Magistrati Amministrativi (ANMA), che già nella denominazione conteneva il senso di una vocazione unitaria per l’intero Plesso giurisdizionale. Si trattava tuttavia di una vocazione, ancorata a principi ben diversi da quelli che per l’altra rappresentanza di categoria (Associazione Magistrati del Consiglio di Stato) si traducevano nella gelosa tutela della “Giustizia nell’Amministrazione”, con tutta l’ambiguità che tale formula racchiude, nei termini di cui si è già fatto cenno. Di certo, nell’ANMA si trovarono ad avere voce prevalente magistrati, fortemente orientati verso l’unicità dei valori della giurisdizione e inclini a riconoscere la specializzazione, ma non anche la specialità della Giustizia Amministrativa, che volevano più legata a principi di forte tutela dell’indipendenza e rigorosa dedizione dei giudici all’attività di Istituto: principi, quelli appena indicati, in cui pure si riconosceva la Magistratura Ordinaria, la cui Associazione di categoria – Associazione Nazionale Magistrati (ANM) – esprimeva a sua volta, nella stessa denominazione, un concetto di sostanziale rappresentatività esclusiva dei valori della giurisdizione.

Erano già allora presenti, nella rappresentanza di categoria della Magistratura Ordinaria, le cosiddette “correnti” (all’epoca ignote alle due Associazioni della Magistratura Amministrativa, benché quest’ultima si mostrasse comunque divisa), ma non si trattava di correnti “politiche” nel senso proprio del termine, essendo la relativa ispirazione riconducibile, piuttosto, a tendenze ideologiche presenti nella società civile, in direzione innovativa e solidaristica, ovvero più o meno conservatrice.

L’intera ANM e lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), in ogni caso, apparivano compatti nel tutelare in via sostanziale i principi sopra indicati, né si registrava la vera e propria corsa verso gli incarichi esterni, in cui primeggiava il Consiglio di Stato, che il Capitolato dei Lavori Pubblici, nel testo all’epoca vigente, rendeva anche destinatario esclusivo della Presidenza di collegi arbitrali, che fino a metà circa degli anni novanta consentivano guadagni rapportati in percentuale al “petitum”: si parla, a quest’ultimo riguardo, di decine di miliardi di vecchie lire all’anno, con una platea di beneficiari inferiore alla ottanta unità (inutilmente incalzate dai magistrati TAR, esclusi dalla formulazione della norma – presumibilmente – solo per inesistenza dei Tribunali Amministrativi alla data di promulgazione della stessa). Ma non ad una equiparazione di tal genere aspirava la nuova ANMA degli anni ottanta, per la quale sia gli incarichi arbitrali, sia l’eccessiva concentrazione di consulenze extra-istituzionali di ogni tipo (per non parlare delle vere e proprie imprese, in campo editoriale o didattico) avrebbero dovuto ritenersi incompatibili con la funzione giurisdizionale, in modo tale da ricevere una disciplina non meno rigorosa di quella, riservata alla magistratura ordinaria.

Erano gli anni in cui circolava un motto di spirito – attribuito ad un noto Presidente di sezione del Consiglio di Stato di allora (e certo dallo stesso frequentemente ripetuto) – secondo cui “le sentenze sono la moglie e gli incarichi l’amante” (con evidente concentrazione del desiderio su quest’ultima), mentre un altro antico Presidente chiedeva retoricamente ai fautori del rigore, presenti in sparuta minoranza nell’Organo di Autogoverno: “Vorreste forse che guadagnassi meno di un miliardo l’anno?” (Si parlava, ovviamente, di vecchie lire). Battute, certo, ma significative del clima che si avvertiva nella magistratura amministrativa. Tutto questo, fino ai primi anni novanta, quando l’opinione pubblica fu investita da notizie di forte impatto circa l’operato della magistratura ordinaria, che stava scardinando fenomeni di corruzione dilagante ai “piani alti” della politica, nonché degli organismi pubblici e privati in collusione con i principali partiti. Era la stagione che fu denominata “Mani Pulite” e che portò, almeno inizialmente, un irripetibile lustro alla funzione giudiziaria. Né vanno dimenticate grandi figure di magistrati, che nello stesso periodo (ma anche in anni antecedenti e successivi) sacrificarono la vita per lottare contro la criminalità organizzata, o entrarono nel mirino del terrorismo.

Alla stessa “carica ideale” si ispiravano – come la maggior parte dei magistrati italiani – i componenti del Direttivo ANMA, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta: si viveva con disagio, all’epoca, il divario tra l’operato del CSM, che tutelava con rigore l’indipendenza dei giudici, escludendo la maggior parte delle funzioni extra-giudiziarie, e l’opposto indirizzo del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, che un bellicoso neo-Presidente dell’ANMA arrivò a definire pubblicamente “Comitato d’Affari”, in quanto il 98% dell’attività consisteva nel distribuire incarichi e collocamenti in fuori ruolo, mentre ben poco ci si occupava delle condizioni di lavoro dei magistrati (quelli di primo grado, in prevalenza, “pendolari” a proprie spese e senza incarichi né strumenti di lavoro: per consultare atti normativi e giurisprudenza si andava in biblioteca, o si acquistavano di tasca propria riviste e banche dati).

Fu in tali condizioni che scoppiò la “scintilla”, ovvero – in realtà – l’inizio di un’“onda lunga” che portò lontano, tanto da far definire i protagonisti associativi di quegli anni come “gruppo storico”.

L’innesco, in realtà, fu di stampo corporativo, ma gli effetti sarebbero stati – come si vedrà – molto diversi, senza il “retroterra culturale” sopra descritto.

Nel 1988, gli appartenenti al ruolo TAR “scoprirono” che i “cugini” della Corte dei Conti (dal cui ruolo alcuni provenivano) avevano ottenuto, con la legge n. 177, un temporaneo dimezzamento dei tempi richiesti per il passaggio dal grado di partenza di referendario alle qualifiche di Primo Referendario e di Consigliere: quattro anni in tutto e non più otto (beneficio ancora noto come “2+2”). L’interesse per ottenere lo stesso trattamento fu subito vivissimo, ma per ragioni inizialmente non economiche: il trattamento retributivo dei magistrati di ogni ordine, infatti, è regolato dalla legge n. 425 del 1984, con progressione legata esclusivamente all’anzianità. Pieni di entusiasmo, comunque, molti giovani magistrati TAR entrarono nell’associazione di categoria, con l’intenzione di promuovere subito una riforma, analoga a quella della Corte dei Conti. Il terreno, aperto da quest’ultima, era stato arato da poco in sede politica e i nuovi rappresentanti trovarono subito, con relativa facilità, i sostegni necessari per portare in Parlamento una norma estensiva del beneficio, che non comportava per lo Stato alcuna spesa e appariva del tutto ragionevole, visto che – dal primo giorno di servizio e per ben più di otto anni – tutti i magistrati in questione erano (come sono tuttora) addetti alle medesime funzioni. La norma in questione fu quindi inserita, in rapida successione, in svariati disegni di legge che offrivano tale opportunità, ma sempre costantemente invano. Ci vollero un paio d’anni per comprendere come mai una disposizione equa e semplice, facilmente ottenuta dalla Corte dei Conti, si rivelasse irraggiungibile per i magistrati TAR. L’illuminazione arrivò quando il Presidente dell’Associazione Magistrati del CdS si lasciò sfuggire, in uno dei periodici incontri, che tale norma non poteva essere approvata, senza l’introduzione di una “salvaguardia”. Emerse così una nuova realtà, fino a quel momento ingenuamente ignorata. In primo luogo, infatti, si comprese che la tutela dei “nascituri” non era un modo di dire, ma un modo di essere difeso con la massima intransigenza: non si poteva permettere quindi che – acquistando la qualifica di consigliere in metà tempo – i magistrati TAR potessero, in tempi più o meno lontani, anticipare la concorrenza con i Consiglieri di Stato per le Presidenze dei Tribunali Amministrativi (a precludere le Presidenze di sezione del CdS, infatti, aveva già provveduto la legge n. 186, ma le Presidenze di TAR restavano accessibili e lo “scalino” degli otto anni era ritenuto irrinunciabile, quanto meno per innalzare l’età e avvicinare il pensionamento degli eventuali Presidenti di provenienza TAR).

In secondo luogo, si comprese che cosa significasse la costante presenza di Consiglieri di Stato negli uffici legislativi e nei Gabinetti ministeriali, in stretto rapporto di collaborazione con gli esponenti del Governo, con acquisizione immediata di informazioni su ogni iniziativa normativa di interesse per la categoria da parte dell’Associazione magistrati del CdS, e successivo parere di "gradimento".

Nonostante ciò, l’ANMA riuscì comunque a venire a conoscenza di frequenti riunioni di Consiglieri di Stato e della Corte dei Conti presso la sede di quello che si chiamava allora Ministero del Tesoro, per elaborare con adeguata riservatezza un testo normativo, in grado di travolgere l’equiordinazione retributiva dei magistrati, fino a quel momento legata solo all’anzianità di servizio. Esistevano infatti da tempo, per il pubblico impiego, disposizioni introduttive del cosiddetto “allineamento stipendiale”, volto ad evitare che soggetti pervenuti, per merito, in posizioni di maggiore responsabilità, percepissero retribuzioni inferiori rispetto a colleghi più anziani, che occupassero posizioni anche gerarchicamente inferiori. Ove una tale situazione si fosse verificata, la retribuzione più elevata del grado inferiore avrebbe quindi fatto “lievitare” quella del grado superiore: per rendere meglio l’idea, l’istituto era anche noto come “galleggiamento”.

Di recente, detto istituto era stato applicato alla magistratura ordinaria, essendo rimasto in ruolo, ma sospeso dal servizio per molti anni, un magistrato coinvolto in una gravissima vicenda penale, in cui veniva contestato il reato di pedofilia. Al momento del rientro il ruolo, tale magistrato aveva un’anzianità maggiore – e quindi una retribuzione più elevata – rispetto ai colleghi che nel medesimo ruolo lo precedevano e, con valutazione che potrebbe suscitare qualche perplessità (tenuto conto della ratio dell’istituto), l’allineamento stipendiale era stato effettuato.

Si era quindi affacciata un’ipotesi applicativa di rilevante entità per le magistrature speciali, nel cui ruolo erano presenti, per nomina governativa, persone provenienti da altre carriere, di norma dopo avere maturato una notevole anzianità. Questi nuovi magistrati entravano in servizio in posizione iniziale, ma con tutto il proprio maturato economico; in più, l’intera carriera precedente era considerata come resa in magistratura, con trattamento economico, pertanto, corrispondente a tale fittizia anzianità di servizio.

Una norma in via di predisposizione avrebbe dunque dato il “via libera” al galleggiamento per il personale di magistratura del Consiglio di Stato, dove coesistevano nomine governative e accesso per concorso: la soluzione escogitata era quella di ritenere pacifica l’applicazione – mai prima effettuata – dell’istituto di cui trattasi, ma circoscrivendolo al trattamento stipendiale, con esclusione degli assegni “ad personam”.

I rappresentati dell’ANMA videro nell’iniziativa un ingiustificato declassamento del ruolo dei Giudici del TAR, non interessato da nomine governative: non a caso, nessuno li aveva invitati alle riunioni in corso.

Il gruppo dirigente di allora si recò quindi dal Presidente del Consiglio di Stato rappresentando allo stesso una ferma opposizione al progetto. Fu quindi coinvolto il Presidente dell’Associazione magistrati del Cds, espressamente invitato ad evitare insanabili spaccature della categoria. In primo luogo, quindi, in una successiva riunione presso il Tesoro, l’ANMA si trovò presente. La situazione era delicata, per il seguente, duplice ordine di ragioni:

- notevole entità del beneficio economico (oltre un milione di vecchie lire mensili nette, con mero “patto fra gentiluomini” – poi disatteso – di non chiedere interessi e rivalutazione sui cospicui arretrati, che superavano per alcuni i cento milioni di lire);

- comune volontà di non dare luogo ad alcun clamore mediatico al riguardo.

 Subito, quindi, si cercò di spiegare ai nuovi convitati ANMA che la vicenda avrebbe avuto risvolti favorevoli anche per loro (testuale: “Anche i ragazzi dei TAR ci guadagnano qualcosa”): il riferimento era a qualche centinaio di migliaia di lire, per allineamento alla retribuzione di avvocati dello Stato e magistrati ordinari, che avessero vinto il concorso di accesso al TAR con qualche anzianità di servizio. Non era stato però messo in conto l’orgoglio di una categoria, che non accettava alcuna deminutio economica, quale sostanziale deminutio di status: i giovani rappresentanti di TAR si scagliarono, quindi, contro quella che venne definita “lotteria stipendiale”, da denunciare al più presto all’opinione pubblica in quanto lesiva di valori-cardine della giurisdizione, da ritenere estesi – nello spirito dell’art. 107 della Costituzione – anche ad un trattamento retributivo uguale per tutti, in base all’anzianità di servizio; mentre abbandonavano platealmente la riunione, tuttavia, gli stessi indignati rappresentanti furono letteralmente rincorsi da alcuni dei presenti e ricondotti al “tavolo”. Il resto venne da sé: il Consiglio di Stato (avendo ben compreso il rischio di perdere il risultato atteso, ove reso oggetto di iniziative di protesta e negative forme di pubblicità) enucleò immediatamente una singolare – e nemmeno richiesta – concezione di ruolo “a pettine”, che consentiva al Consigliere TAR di “allinearsi” al miglior trattamento economico del primo Consigliere di Stato governativo, entrato in ruolo in data successiva. Non sarà l’ultima volta, come vedremo, in cui l’interesse economico, sottostante ad iniziative del Consiglio di Stato, sarebbe stato utile per i magistrati TAR, quando la relativa rappresentanza di categoria si fosse mostrata intransigente nel difendere il prestigio della funzione. L’ANMA aveva ottenuto, quindi, un risultato che riteneva prezioso anche al di là del beneficio economico, dipendendo quest’ultimo dall’equiparazione a tutti gli effetti del Consigliere di TAR al Consigliere di Stato. Perché, poi, non sia stato così anche sotto ulteriori profili, lo si comprenderà solo nel seguito della presente narrazione. All’epoca l’operato dell’Associazione comportò, comunque, una maggiorazione retributiva importante, che però non raggiungeva proprio i protagonisti della nuova trattativa, non avendo ancora gli stessi raggiunto la qualifica di Consigliere. Non poteva che riaccendersi, quindi, lo scontro sul “2+2”. Ci si guardò bene, tuttavia, dal lanciare una battaglia concentrata su tale fronte, meramente corporativo (ed anche, ora, di rilevanza economica), ma si avviarono iniziative di protesta estese a tutte le ragioni del malessere, avvertito dalla categoria. Venne quindi proclamato uno sciopero ad oltranza – all’epoca possibile – con effetti realmente paralizzanti in tutti i Tribunali Amministrativi Regionali: la legge n. 189 del 13 luglio 1990 – che estendeva a termine i benefici di carriera, originariamente ottenuti dalla Corte dei Conti – arrivò dopo poco più di due settimane, ma lo sciopero non venne sospeso, fino a che il Ragioniere Generale dello Stato invitò il Presidente dell’ANMA – che in casa stava lavorando sui provvedimenti urgenti, non compresi nell’astensione dal lavoro – ad un incontro che avvenne meno di un’ora dopo, previo invio di un’autovettura di servizio. In tale incontro – evidentemente suggerito “dall’alto” – i due soli partecipanti elaborarono le linee di un maggiore supporto per il lavoro dei magistrati amministrativi, con istituzione di un nuovo capitolo di bilancio, di cui venne elaborata la denominazione e che è alla base delle dotazioni informatiche, nonché dell’acquisto di banche dati, di cui ancora i magistrati amministrativi dispongono.

Solo dopo tali ultime conquiste lo sciopero venne interrotto.

Il notevole successo ottenuto, in ogni caso, non rappresentò la fine dei problemi da affrontare. Innanzi tutto, infatti, si aveva la precisa impressione che il cosiddetto galleggiamento avrebbe avuto vita breve e, per tale ragione, si accettò la “salvaguardia”, imposta dal Consiglio di Stato come pre-condizione dell’accordo: per i nuovi consiglieri, quindi, l’art. 1 della ricordata legge n. 189 del 1990 faceva espressamente salvo l’ordine di ruolo di cui all’art. 21, primo comma, della legge n. 186 del 1982. 

Successivamente, all’inizio degli anni novanta, partì un nuovo, fortissimo confronto.

Come si temeva, infatti, l’allineamento stipendiale – sempre mal digerito dal Tesoro e imposto da una vera e propria “manovra di Palazzo” – ebbe bruscamente termine, con l’art. 2, comma 4, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito in legge n. 359 del 1992. 

Contribuirono alla velocità della “caduta” le iniziative di svariati colleghi che – pur preavvertiti e dopo avere incassato somme cospicue – iniziarono a chiedere sulle stesse interessi e rivalutazione monetaria. Anche per l’avidità di pochi, pertanto, furono abrogate le disposizioni di legge, che consentivano l’allineamento stipendiale nel pubblico impiego. Tutte meno una: quella contenuta nel nono comma dell’art. 4 della legge n. 425 del 1984, che prevedeva l’allineamento stipendiale per i magistrati che fossero pervenuti alle Corti d’appello o alla Cassazione a seguito di “concorso per esami”. E’ ragionevole ritenere che tale norma non sia stata tenuta in considerazione – benché ancora non formalmente abrogata – in quanto priva di destinatari, non essendo più effettuato, nella magistratura ordinaria, alcun concorso per esami, finalizzato all’accesso alle citate Corti superiori. Non la pensarono allo stesso modo, però, i Consiglieri di Stato vincitori di apposito concorso, che per ottenere un’interpretazione estensiva della norma in questione proposero ricorso straordinario al Presidente della Repubblica. Si prefigurava ancora una volta, pertanto, un disallineamento di status per il ruolo TAR: i magistrati più giovani, infatti, avrebbero avuto accesso alla qualifica di consigliere con retribuzione decurtata rispetto agli stessi colleghi TAR più anziani e a regime, poi, rispetto ai nuovi vincitori di concorso per il CdS, che – con l’intervenuto accoglimento del ricorso straordinario – avrebbero ritagliato per se stessi un’ulteriore “nicchia” di privilegio, rispetto non solo alla restante magistratura amministrativa, ma anche alla Corte dei Conti e all’Avvocatura dello Stato. La protesta, in ogni caso, partì dall’ANMA, i cui rappresentanti avevano ormai, all’epoca, già ottenuto la qualifica superiore e l’allineamento stipendiale, ma scelsero la via di una solidale tutela dell’intera categoria e non dei propri specifici interessi.

A seguito di nuova dichiarazione di sciopero, l’ANMA venne convocata dal Ministro per la Funzione Pubblica dell'epoca che, in parallelo, doveva già avere registrato il malumore dei funzionari del Tesoro, messi di fronte ad un atto giustiziale, ritenuto non condivisibile e assunto in conflitto di interessi. All’epoca, peraltro, il parere emesso in sede di ricorso straordinario non comportava un obbligo di emanazione di decreto presidenziale conforme e – mancando tale decreto – i Consiglieri di Stato ricorrenti avevano promosso una inedita azione di ottemperanza, nominando commissario ad acta il Segretario Generale dell’Istituto di appartenenza. La “prova di forza”, questa volta, non ebbe successo: nonostante alcuni convulsi tentativi di accordi separati (che coinvolsero purtroppo anche alcuni colleghi del TAR), per conservare una differenza di trattamento retributivo a favore dei vincitori di concorso per il CdS, l’art. 50, quarto comma, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (legge finanziaria 2001) – fortemente voluto dal Ministro Bassanini, che non aveva apprezzato la “fuga in avanti” di alcuni pur abituali collaboratori – conteneva la soppressione retroattiva, in via di interpretazione autentica, dell’art. 4, comma 9, della legge n. 425 del 1984, con perdita di “ogni efficacia” dei provvedimenti e decisioni “di autorità giurisdizionali, comunque adottati difformemente dalla predetta interpretazione….In ogni caso non sono dovuti e non possono essere eseguiti pagamenti sulla base dei predetti decisioni e provvedimenti”. Al posto del “regalo” per pochi, tuttavia, i magistrati di ogni ordine e gli avvocati dello Stato, che non avessero usufruito del soppresso istituto dell’allineamento stipendiale, avrebbero avuto accesso – con il conseguimento della qualifica di consigliere o qualifica equiparata – al “trattamento economico complessivo annuo pari a quello spettante ai magistrati di Cassazione”. Giunti a questo nuovo successo, che ristabiliva gli equilibri retributivi all’interno dei singoli ordini giudiziari (fatta salva un’aspra polemica con la rappresentanza della magistratura ordinaria, che registrava una straordinaria progressione per le magistrature speciali) i rappresentanti dell’ANMA si mossero verso un solo obiettivo: quello dell’unicità di accesso e di carriera, all’interno del Plesso di appartenenza.

Anche questo obiettivo venne raggiunto, benché con disposizione solo programmatica, attraverso l’art. 18 della legge n. 205 del 2000. Dietro una norma così importante, che poteva cambiare il corso della storia per la magistratura amministrativa, c’erano tutta la coesione interna che ancora sussisteva e la convinta partecipazione esterna ai lavori della Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, che aveva concluso i propri lavori il 4 novembre 1997, trasmettendo al Senato un progetto che lasciava al Consiglio di Stato la sola funzione consultiva, a fronte di una magistratura amministrativa unitaria – in pieno possesso di una posizione di terzietà – con due gradi di giudizio affidati al medesimo Plesso di giudici e facoltà iniziale di scelta per i consiglieri di stato, circa l’organismo di appartenenza, ma senza più alcuna sovrapposizione di funzioni diverse e non compatibili. Questi risultati furono anche frutto di un’ampia collaborazione, instaurata con il relatore, Marco Boato, e con il senatore Giovanni Pellegrino, che fu in seguito il “padre” della legge n. 205. 

E’ ragionevole ritenere che – se non fossero venuti meno quei presupposti di coesione e convincimento, che si concentravano sui valori primari della giurisdizione – anche l’obiettivo finale, quello più importante, sarebbe stato raggiunto. Si trattava, dunque, di assicurare i presupposti per una Giustizia Amministrativa rinnovata, in grado di affrontare la sfida della complessità, costituita dalla trasformazione degli apparati pubblici: una trasformazione, a cui non poteva che corrispondere un Plesso giurisdizionale moderno e unitario, secondo il caloroso invito del Senatore Pellegrino, in un memorabile convegno sulla legge n. 205 del 2000, di cui lo stesso era stato ispiratore e relatore.

Quell’entusiasmo e quelle speranze non hanno ancora avuto seguito, a venti anni di distanza, ma, soprattutto, sembrano avere perso consistenza, nella categoria che più fortemente le aveva volute. Subito dopo l’approvazione della legge n. 205, infatti, gli stessi protagonisti di quello, che è stato successivamente definito “Gruppo storico”, intendevano concentrare l’intera forza dell’Associazione sull’obiettivo sopra descritto, come preordinato dall’art. 18 della medesima legge, ma cominciarono ad avvertire che la categoria non era più la stessa. Gli stessi successi, ottenuti dall’ANMA, avevano indotto molti magistrati ordinari a partecipare ai successivi concorsi per referendari TAR, puntando su una magistratura, in cui ravvisavano maggiori possibilità di carriera e di guadagno. Già in precedenza, tuttavia, alcune crepe erano emerse ai margini del Direttivo, la cui intransigenza sulle questioni di status non era gradita a tutti, quando si potesse temere la compromissione di interessi personali. Poco prima dell’approvazione della legge finanziaria 2001, alcuni magistrati TAR avevano concordato la possibilità di maggiorazioni retributive per i vincitori di concorso del Consiglio di Stato: accordo ignorato e poi respinto con forza dalla dirigenza dell’Associazione (oltre a rivelarsi del tutto inutile, poiché lo stesso Ministro Bassanini rifiutò, con una certa durezza, di ascoltare il rappresentante del CdS che lo proponeva). La tentazione di accordi "in parallelo" però rimase e divenne via via più evidente, traducendosi nell’accusa all’Associazione di non volere una riapprovazione del “2+2”, in cambio di un modesto aumento dell’aliquota per l’accesso concorsuale al CdS (dal 25% al 40%).

Si trattava, in realtà, di un vero e proprio “specchietto per le allodole”, in quanto l’aumento dell’aliquota – definito riduttivamente “fotografia dell’esistente”, per il singolare meccanismo in precedenza descritto – avrebbe comportato, se posto in essere, in questi ultimi venti anni, una più che dimezzata presenza di magistrati TAR in CdS, con ulteriore paralisi nello scorrimento del ruolo a tutti gli effetti, mentre il “2+2” non sarebbe mai stato approvato, per le conseguenze economiche che ormai comportava e che erano particolarmente invise alla magistratura ordinaria. Non bastò, tuttavia, che si lasciasse presentare il frutto dell’accordo in sede parlamentare – ove fu subito affossato dalla furibonda reazione del Presidente dell’ANM dell'epoca – perché fu avviata una raccolta di firme contro la dirigenza dell’Associazione, colpevole di “pensiero unico” e di rifiuto della strategia dei “piccoli passi”, attraverso cui realizzare traguardi anche minori ma concreti, coltivando rapporti amichevoli e non di contrapposizione col Consiglio di Stato. L’alto numero di adesioni al documento fece battezzare i promotori come “Gruppo dei 100”, poi denominato “Rinnovamento” . 

Il cammino unitario del “Gruppo storico” è terminato qui, nei primi anni duemila, mentre la perdita dell'unità interna è coincisa con una maggiore penetrazione di magistrati TAR nel mondo degli incarichi extra-istituzionali e con un cambiamento di direzione dell'attenzione della categoria, o almeno di una parte consistente di essa. Per concludere questa parte della narrazione, può essere anche interessante segnalare la tenacia, con cui i promotori del ricorso straordinario hanno continuato a battersi contro la formulazione dell’art. 50 della finanziaria 2001, questa volta perseguendo sia una riforma, in senso più spiccatamente giurisdizionale, dello stesso istituto giustiziale di originario riferimento, sia la via di ricorsi giurisdizionali in primo e in secondo grado: ricorsi, in esito ai quali ben due pronunce della Corte Costituzionale (nn. 282 del 2005 e 24 del 2018) – la prima promossa dal TAR del Lazio e la seconda dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato – hanno posto fine alla vicenda, in termini negativi per i ricorrenti.

Nel frattempo, è stata fondata nel 2008 una nuova Associazione di categoria di Consiglieri di Stato, il Coordinamento Nuova Magistratura Amministrativa (CoNMA), che ha come finalità statutaria il perseguimento di un reale e non fittizio ruolo unico. Nella nuova sede associativa gli “ultimi giapponesi” del Gruppo Storico – come quelli originari, che continuarono a combattere nella seconda guerra mondiale, ignorando la resa del Giappone – hanno lasciato una testimonianza finale, dal titolo “Prospettive di Riforma della Giustizia Amministrativa”: un testo approvato all’unanimità dall’assemblea il 2 luglio del 2014 e consegnato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Riprendendo le proposte, oggetto del documento CoNMA del 2014, la scrivente, come Presidente di TAR, nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2019, ha così idealmente riassunto la sua parabola associativa e professionale: “Non si dovrebbe attendere oltre, per porre mano al preannunciato riordino della Giustizia Amministrativa, in termini tali da imprimere un forte impulso per l’ammodernamento dell’intero sistema: riordino che sembra, viceversa, sparito sia dall’agenda programmatica degli ultimi Governi sia da un serio contesto propositivo interno, in passato fatto proprio anche dall’Organo di Autogoverno.

Detto ammodernamento, da più parti invocato, difficilmente potrà prescindere da linee di riforma, in grado di rafforzare l’intervento del giudice amministrativo: un intervento che, nell’attuale assetto istituzionale, dovrebbe presupporre un potenziamento delle funzioni sia consultive che giurisdizionali, ma in una innovativa dimensione di separatezza…...

Da una parte, infatti, sarebbe auspicabile un ruolo realmente unitario di giudici, di primo e di secondo grado, rigorosamente terzi rispetto alle parti del giudizio e mai contigui (anche in via extra-istituzionale) ad una di esse: giudici, dai quali provengano indirizzi giurisprudenziali imparziali e univoci, quale momento di sintesi dell’infinita casistica vissuta attraverso i processi; dall’altra, potrebbe riconoscersi un altrettanto eccellente, ma distinto ruolo di consulenti – del Governo e di altre istituzioni pubbliche – in grado non solo di contribuire, come già ora avviene, all’opera di semplificazione e codificazione delle norme, ma anche di svolgere una nuova funzione di “problem solving”.

Tale funzione potrebbe essere istituita con modalità tali, da consentire la prevenzione e il contenimento del contenzioso, aiutando soggetti pubblici e privati – attraverso risposte “neutre”, oltre che altamente qualificate, su precisi quesiti giuridici – a individuare linee interpretative corrette e a superare quei blocchi o difficoltà procedurali, che troppo spesso dilatano i tempi dell’azione amministrativa. Questa peculiare dimensione del parere, illustrata dal Presidente Pajno in sede di inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, meriterebbe ampia riflessione, elaborazione delle possibili modalità attuative e iniziative concrete di realizzazione, di sicuro interesse pubblico.

Non si dubita, infatti, della concezione del Consiglio di Stato come “serbatoio di eccellenza”, in grado di fornire adeguati indirizzi tecnico-giuridici, nell’interesse del Paese, ma – quando tali indirizzi e gli atti conseguenti vengano resi oggetto di giudizio – occorre che i giudici non solo siano, ma anche appaiano rigorosamente equidistanti dalle parti in causa, nonché dediti in via esclusiva alle proprie delicate funzioni. 

Una riforma indirizzata nel senso sopra indicato, dunque, non potrebbe che accrescere la forza e l’autorevolezza del Plesso giurisdizionale TAR/Consiglio di Stato, senza nulla sottrarre alla peculiare posizione di un distinto ruolo consultivo del medesimo Consiglio di Stato – da rendere anzi più incisivo – anche nell’assetto costituzionale vigente.

Poche parole di conclusione. Consapevoli del privilegio di appartenere ad una categoria, che può dare un rilevante contributo per lo sviluppo sostenibile del Paese, i magistrati amministrativi dovranno trovare in tempi brevi maggiore coesione interna e univocità di indirizzi, concentrandosi sui tempi e sui modi, in cui possono essere garantiti principi di respiro europeo, quali l’effettività della tutela e il giusto processo. La sfida di un cambiamento profondo, nella cultura e nelle prassi operative dell’intero Apparato pubblico, non può essere affrontata con formule gattopardesche (“bisogna che tutto cambi, perché tutto rimanga com’è”): auspichiamo, dunque, che sia arrivato il tempo di innovazioni reali, nella predisposizione delle regole e nella relativa applicazione, senza pretendere l’avvento di una società ideale, ma senza sottrarci a nuove, più avanzate dimensioni deontologiche, istituzionali e funzionali. All’individuazione dei nuovi orizzonti, nonchè al diretto coinvolgimento nei conseguenti percorsi, non potranno restare estranee la cultura e la grande tradizione della Giustizia Amministrativa.”




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